Lo stupore della normalità. Quasi sgomenta, dopo decenni di scontro ideologico, di furori sul tema del lavoro – per il quale uomini come Tarantelli, D’Antona e Biagi hanno pagato con la vita e il Paese ha subìto tensioni enormi – assistere alla presentazione della riforma da parte del governo. Perché solo ora si trova una sintesi politica così ampia e responsabile? Con divisioni fisiologiche e un quadro di proteste (finora) all’interno della normale dialettica democratica.In tre mesi non solo si è provveduto a innovare la materia dei licenziamenti, a fare manutenzione della flessibilità in ingresso e ad abbozzare un sistema di ammortizzatori più funzionale e universalistico, ma si sono ripristinati ruoli e responsabilità politiche che da tempo in Italia erano alterati. Si è esaltata la funzione di rappresentanza e competenza specifica dei corpi intermedi. Negando però a sindacati e associazioni d’imprese il potere di veto e l’arroganza dei blocchi di potere. Si è cancellata un’anomala funzione di supplenza, che queste "parti" hanno esercitato negli ultimi vent’anni. Si sono richiamati i "partiti" – e proprio nel momento della loro massima crisi – al ruolo autentico di rappresentanza degli interessi generali. E i partiti anche su questo terreno (oltre che su quello democratica e severa autoriforma di sé) hanno ora una fondamentale occasione di riscatto. L’impegno assunto in tal senso dal terzetto «Abc» – Alfano, Bersani e Casini – fa ben sperare. E va dato atto ai tre leader di aver saputo (almeno finora) mettere in secondo piano interessi e convenienze politiche per arrivare non a un compromesso al ribasso, ma – come nel caso dei licenziamenti per motivi economici – a un più alto livello di sintesi. Guardando insieme alla necessaria efficienza economica, così come alla salvaguardia dei diritti fondamentali dei lavoratori e – questione mai trascurabile – alle esigenze di coesione sociale. Qualcosa da Paese normale. Quasi da «Paese prevedibile» come auspicava il presidente Monti parlando ai partner asiatici.Sul piano contenutistico, l’iter del provvedimento è ancora lungo, e non sappiamo quale testo definitivo uscirà dalle Camere. La struttura è complessa, sono previste alcune deleghe da esercitare, a cominciare da quella sull’armonizzazione delle regole per il pubblico impiego (che non si presenta semplice da stendere e da portare a compimento). L’impatto concreto sull’occupazione è oggettivamente difficile da stimare in questo momento. «C’è molto per i giovani», ha detto convinto la signora ministro del Lavoro. E questa di non tradire le attese e i bisogni dei giovani dovrà essere davvero la cartina al tornasole con la quale verificare la riforma.«Una svolta storica», l’ha definita il presidente Monti, una «riforma che guarda agli anni futuri». In realtà, però, è proprio il futuro a gettare un’ombra di dubbio pesante sullo scenario. La globalizzazione, la diffusione delle tecnologie informatiche, la riduzione della produzione materiale a fronte di un incremento dei servizi e dei beni relazionali stanno determinando nei Paesi occidentali cambiamenti eccezionali del mercato del lavoro così come l’abbiamo conosciuto lungo il Novecento. Gli studi più avanzati indicano che di qui a 10-15 anni, la quota di lavoratori autonomi, a tempo, freelance, i liberi professionisti – in grado di lavorare a distanza, da casa propria o anche dall’altra parte del mondo rispetto all’azienda committente, sfruttando la forza delle reti o di volta in volta "reclutati" tramite offerte lampo sul web – arriveranno a essere tra il 40 e il 50% degli occupati. Con i lavoratori dipendenti "tradizionali" quasi in minoranza, relegati alle attività meramente manuali e di produzione manifatturiera.Se così fosse, se così sarà, la riforma di cui discutiamo avrebbe sì "aggiustato" l’esistente, ma non avremmo ancora compiuto neppure il primo passo nella direzione di promuovere, e insieme tutelare in maniera nuova, la capacità autoimprenditoriale di tanti di noi e dei nostri figli.