«Il fatto è che il Daesh uccide i cristiani in quanto cristiani». L’affermazione che di per sé sancisce il martirio dei credenti in Cristo caduti in Siria e Iraq non arriva dalla Congregazione delle cause dei santi, ma dal segretario di Stato americano John Kerry. Genocidio, pulizia etnica e crimini contro l’umanità, secondo gli Stati Uniti, sono stati provati oltre ogni ragionevole dubbio nell’area mediorientale in cui dal 2014 è insediato il sedicente Stato islamico. Non episodi isolati di terrorismo, ma persecuzioni sistematiche che hanno preso di mira anche le minoranze yazide e sciite, in nome di un’interpretazione fondamentalista dell’islam sunnita.
Le cifre sono impressionanti: in cinque anni di guerra i cristiani siriani che hanno dovuto lasciare il Paese (o che sono morti) hanno raggiunto il milione, due terzi di tutti i fedeli residenti prima del 2011. Nella sola Aleppo, città martire, simbolo della atrocità del conflitto, in 120mila su 160mila sono stati costretti a fuggire dall’odio per la religione che professano. Ma l’esodo drammatico riguarda anche i piccoli centri: 34 villaggi assiri sul fiume Khabur, nella provincia di Hassaké, sono stati annientati dall’avanzata del Daesh nel febbraio dell’anno scorso. E nelle zone del vicino Iraq sottratte al controllo statuale le cose non sono andate molto meglio per tutti i non sunniti: intimidazioni, attentati, esecuzioni.
Spesso si comincia con l’occupazione delle cittadine abitate dalle minoranze; si spogliano o si distruggono i luoghi di culto, oppure li si trasforma in moschee "ortodosse"; si radono al suolo le vestigia delle civiltà ritenute "infedeli". Poi si passa all’imposizione della sharia e di tributi speciali; quindi arrivano (se già non sono state compiute) le vessazioni e le violenze. Le ragazze sono rapite, violentate e date in spose ai combattenti del jihad. Gli uomini spesso deportati o uccisi. L’elenco delle atrocità, documentate in video utilizzati per la macabra propaganda su Internet, contempla decapitazioni, fucilazioni, corpi lacerati da bombe appese al collo delle vittime, annegamenti di massa dentro gabbie calate in acqua, mentre impietose telecamere riprendono l’agonia.
Tutto questo era tristemente noto anche senza il crisma dell’ufficialità nell’ambito di una cornice giuridica specifica. Il riconoscimento del genocidio tuttavia può avere due effetti rilevanti. Da una parte, non si potrà più facilmente negare o disconoscere la realtà della condizione dei cristiani, che dove sono minoranza, soprattutto in Asia, risultano i più esposti alla programmatica repressione a motivo del loro credo. Dall’altra, come ha spiegato lo stesso Kerry, l’America sarà ora più impegnata a contrastare il genocidio, con azioni mirate in difesa delle comunità colpite. Non scatta un obbligo automatico, ma la sensibilità dell’Amministrazione Usa dovrebbe essere più orientata a non trascurare il grido di dolore che si leva, quasi sempre inascoltato in Occidente, dalle terre insanguinate dallo Stato islamico.
Quello che però non serve in questo momento è un altro fronte bellico che alimenti ulteriormente il conflitto oggi con fatica limitato dalla tregua avviata da un paio di settimane. Non è difficile rilevare come il Daesh sia nato nell’Iraq occupato militarmente dopo l’invasione del fronte euro-americano nel 2003 (senza dimenticare che è stato anche strumentalmente rafforzato in Siria dal cinismo di Assad, che ha scarcerato i fondamentalisti per potere avere un alibi – la lotta agli estremisti – poi sfruttato anche dalla Russia). Al-Baghdadi è persino transitato da un campo di prigionia gestito dagli americani prima di diventare il Califfo del terrore.
Ma, a ritroso, si può dipanare un filo che lega l’invasione dell’Iraq agli attentati alle Torri Gemelle compiuto da al-Qaeda nel 2001. E la nascita della rete di Benladen era stata a sua volta propiziata dal sostegno Usa, allora segreto, ai mujaheddin che combattevano le truppe sovietiche, entrate in Afghanistan nel 1979.Una lunga storia, ormai ben nota ma quasi sempre trascurata, che porta dalla Guerra fredda fra le due superpotenze all’incendio totale del Medio Oriente. Senza tacere, ovviamente, le forti responsabilità di un islam politico (e affarista) che nello stesso periodo si è via via affermato e armato, diventando poi l’ideatore e il realizzatore di crimini efferati. Un quadro in cui il ricorso alle armi non ha mai risolto definitivamente una crisi, bensì ne ha aperte altre, ancora più gravi. Spingere sui negoziati di pace per la Siria, con soluzioni praticabili, può essere una mossa più produttiva, da parte americana, di altri raid con i droni, seppure motivati dal nobile scopo di proteggere le minoranze minacciate. E la tutela dei cristiani passa oggi dal porre precise condizioni al tavolo di Ginevra per il loro ritorno a casa in sicurezza, così come dal pensare a strategie sostenibili per il rimpatrio o la ricollocazione dei milioni di profughi e sfollati, senza creare invece, con un cattivo accordo, le premesse per nuove tensioni e rinnovati scoppi di violenza. Se è utopistico sperare solo nella buona volontà di parti che si sono combattute senza sosta e senza pietà per cinque anni, non è solo con il riflesso condizionato dei missili che si può fermare un genocidio che ferisce popoli, Paesi e la storia stessa della civiltà di tolleranza e rispetto cresciuta in quelle regioni.