Caro direttore, è utile qualche altra parola sulle mirabolanti battute riguardanti la democrazia rappresentativa, quella diretta e il Parlamento, avanzate nei giorni scorsi da Davide Casaleggio e, in modo ancor più radicale e suggestivo, dallo stesso Beppe Grillo che è arrivato a evocare l’«estrazione casuale» (e non l’elezione) di almeno una delle due Camere. Lasciamo dapprima parlare Il contratto sociale di Jean Jacques Rousseau: «I deputati del popolo non sono, né possono essere suoi rappresentanti; essi non sono che suoi commissari... ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla... Il popolo inglese pensa di essere libero, ma s’inganna gravemente; è libero solo nell'istante delle elezioni dei rappresentanti, ma subito dopo ridiventa schiavo» (fortunatamente gli inglesi dell’epoca e dopo non presero sul serio tale frase). Per Rousseau la sovranità e la volontà generale non possono essere rappresentate. In maniera meno elaborata ma comunque comprensibile Casaleggio ha proposto una brutta copia delle idee appena dette, e ciò spiega per quale motivo la piattaforma Rousseau si chiami proprio così, e non per esempio “piattaforma Hobbes”.
Per Rousseau gli eletti sono “commissari del popolo”, non suoi rappresentanti senza vincolo di mandato. Commissario del popolo è il termine che Lenin e i bolscevichi introdussero nella loro prassi, intendendo che i commissari erano meri esecutori della volontà generale dell’Assemblea, che poi – come ben si è visto – era subordinata al comitato centrale e infine al “capo supremo”. Il miraggio della democrazia diretta si muta facilmente in oligarchia e poi in dittatura, e tutto sempre in nome del popolo e dei suoi amici: essere “amico del popolo” è un prerequisito tanto indispensabile quanto vuoto. Senza voler suggerire alcun parallelo improprio, colpisce che il capo politico dei 5stelle abbia presentato il nuovo presidente del Consiglio appunto come “amico del popolo”. Infondata in sé, l’idea di democrazia diretta, che forse poteva ancora andar bene in un piccolo cantone svizzero di due secoli fa, in cui il popolo non comprendeva donne, bambini e anziani, ma solo i capi famiglia, è addirittura assurda se applicata a nazioni di 50, 100 o più milioni di persone. Essa ignora la forza manipolatrice delle immense reti mediatiche, oggi soprattutto americane, che avvolgono e penetrano in ogni interstizio del nostro vivere, plasmano e riplasmano in ogni momento le nostre esperienze: l’espressione più adatta per tale situazione è che viviamo in una ristrettissima oligarchia mediatica che senza adeguati contrappesi può diventare dittatura mediatica, in cui fonti monopolizzate diffondono in ogni luogo un unico paradigma. Qui il problema non è solo il messaggio, ma sono in specie i proprietari e i gestori controllori ultimi delle reti e il loro scopi che spesso si riassumono nell'accumulare denaro a palate e acquistare potere.
La politica è intessuta d’interazioni personali dirette, mentre l’intento della tecnodemocrazia è di cancellarle. Chi favoleggia del superamento e dell’inutilità del Parlamento, ritiene che la politica vera significhi tradurre il volere dei cittadini in atti concreti. Ma questo volere deve esprimersi in modo formato, e il “bene comune” non è mai la semplice somma dei singoli voleri, ma il risultato di un processo politico difficile. Lasciata la piazza pubblica nelle mani di controllori occulti e valendo i cittadini come nudi singoli, sono poste le condizioni per la prevalenza della “legge di Gresham” secondo cui la moneta cattiva caccia la buona. Sostiamo ancora un istante sul popolo e i suoi amici. Qui emerge una domanda fastidiosa che non riesco ad allontanare: nella democrazia in cui comandano gli “amici del popolo” sarà ancora possibile che chi diffami debba sentirsi in coscienza obbligato a scusarsi? La mente corre alle ore in cui gli autoproclamati “amici del popolo” gridavano di voler avviare contro il presidente Mattarella un procedimento di sua «messa in stato di accusa». Dopo poco è calato il silenzio su quella deplorevole vicenda, ma non pochi cittadini, tra cui chi scrive, hanno atteso, sinora invano, che il principale accusante, l’attuale vicepremier Luigi Di Maio, si scusasse con il Presidente pubblicamente (e non solo, con ovvio imbarazzo, attraverso la ricostruzione effettuata dal giornale più amico del M5s, “Il Fatto”) per un’iniziativa tanto infondata e offensiva. Continuo a sperare, perché in vicende così fondamentali non è mai troppo tardi per dar pieno segno di resipiscenza.