La prima donna inquilina di Palazzo Chigi desidera essere chiamata “il presidente”. Un controsenso? Non proprio. Piuttosto, una scelta che rispecchia un certo modo di vivere la propria identità professionale e non solo.
Il primo aspetto da sottolineare, comunque la si pensi, è che si tratta di un errore grammaticale. La lingua italiana prevede due generi, maschile e femminile. Come esiste la maestra, la sarta, l’operaia, esiste anche “la” presidente, la premier. Finalmente: ci sono voluti 76 anni di storia repubblicana, ma ora anche in Italia, come altrove nel mondo, c’è.
La seconda osservazione riguarda le consuetudini. In Italia i nomi professionali femminili non sono ancora patrimonio comune e condiviso. Non si discute su bidella, cuoca, cameriera, e nemmeno su infermiera o segretaria. Ma quando si tratta di mestieri o ruoli più prestigiosi e di più recente “femminilizzazione”, come sindaca, avvocata, magistrata, ingegnera e architetta, si registrano resistenze.
Anche da parte delle stesse donne (e no, il problema non è che “suonano male”, altrimenti non dovremmo usare parole assai comuni come “cazzuola”). I cambiamenti richiedono tempo, e con ogni probabilità tra qualche decennio nessuno farà più caso a una rettrice o una chirurga. Con la terza riflessione ritorniamo all’origine della querelle. Giorgia Meloni ha tutti i diritti di preferire l’articolo maschile davanti a “presidente del Consiglio”.
Una preferenza che non sorprende affatto, perché è del tutto coerente con il pensiero dell’area politica e culturale a cui appartiene. Anche Maria Elisabetta Alberti Casellati desiderava essere chiamata “il presidente” (del Senato) e oggi senz’altro vorrà essere “il ministro delle Riforme Istituzionali”. È ben nota la fermezza con la quale Beatrice Venezi rifiuta la qualifica “direttrice” d’orchestra.
E fu proprio Fratelli d’Italia, il 27 luglio scorso, a chiedere il voto segreto in Senato su un emendamento che avrebbe incluso anche il femminile (“Senatori e “Senatrici”) nelle comunicazioni ufficiali, con il risultato del suo affossamento. La motivazione più classica di questa impostazione è che il ruolo, l’incarico, è “al maschile” e non conta il sesso di chi lo ricopre, bensì la bontà e l’efficacia delle sue azioni. Ciò è vero, ma solo fino a un certo punto: l’essere uomo e donna, come ha scritto la filosofa Francesca Izzo su queste colonne, «non è un insignificante accidente, ma uno dei due modi di esistere dell’umanità». Che a rivestire un ruolo sia un uomo o una donna, insomma, non è affatto irrilevante.
E c’è un altro elemento, come abbiamo spesso sottolineato su queste pagine: le parole servono a rendere evidente ciò che esiste, a farlo uscire dall’invisibilità. Se Samantha Cristoforetti dirige la Stazione Spaziale Internazionale, è bene che si sottolinei che è “una” astronauta. Declinare “la magistrata” o “la premier” significa dare un nome a una realtà che ieri non esisteva e oggi invece sì, una realtà che, rendendola visibile, diventa alla portata delle ambizioni e dei progetti di ogni bambina e di ogni ragazza. Come scrive la linguista Vera Gheno, «le parole sono solo parole» per coloro che dalle parole non sono mai state oppresse. Fatte tutte queste premesse, occorre infine ripetere che a fronte del diritto di Giorgia Meloni a preferire l’articolo maschile, altrettanto esiste il diritto, per chiunque parli di lei in veste di premier o presidente del Consiglio, di usare il femminile.
Come nota la linguista Valeria della Valle, “madre” con Giuseppe Patota del recente e rivoluzionario Vocabolario della Treccani in cui le forme femminili di nomi e aggettivi hanno pari dignità di quelle maschili, «in Italia durante il fascismo c’è stata una politica linguistica. Oggi, invece, non siamo nel fascismo». E dunque ognuno faccia la scelta che vuole, sapendo che solo una è grammaticalmente giusta. L’altra è legittima e rispettabile, ma «personale e ideologica» (della Valle), nel senso che rispecchia una specifica visione.
Il dibattito è acceso anche nelle redazioni: il sindacato dei giornalisti della Rai (Usigrai) ha segnalato un «pericoloso arretramento» in molte testate, con le direzioni che starebbero facendo pressioni perché i redattori usino il maschile a proposito di Giorgia Meloni. “Avvenire”, dal canto suo, continuerà con coerenza e serenità nella linea su cui abbiamo ragionato liberamente per arrivare poi alla sintesi fatta dal suo direttore: se è una donna a ricoprire un incarico o una funzione, l’articolo sarà al femminile. Senza farne una crociata, nel rispetto delle idee di ciascuno, ma anche nella convinzione che declinare i nomi professionali non sia solo uno sterile e ruffiano omaggio al “politicamente corretto” ma un fattore di crescita dell a consapevolezza di una reale parità tra uomo e donna. E, infine, nella certezza che il lavoro che Giorgia Meloni e la sua squadra di governo dovranno affrontare nei prossimi mesi va al di là di qualsiasi articolo.