Sono stati sufficienti pochi giorni di convulsioni per proiettarci nel paradosso di dover salutare con speranza, augurandogli all’unisono col capo dello Stato un «buon lavoro» per il futuro, la nascita di un Governo che era stato dato per morto dai suoi stessi promotori e di cui in realtà dovremmo essere soprattutto preoccupati. La squadra guidata dal premier Giuseppe Conte e dai due vicepremier, super-ministri e azionisti di riferimento Luigi Di Maio e Matteo Salvini, è infatti un anomalo esecutivo "politico" affidato alla regia di un "tecnico", basato su un contratto notarile di difficile attuazione e concordato da forze politiche che in campagna elettorale sono state fiere avversarie e che oggi si guardano con sospetto. Ma non ci sono alternative e ci sono grandi urgenze sulla scena interna e internazionale. Per questo il presidente, arbitro e ostetrico, ha dovuto spendere infinite energie e infinita pazienza.
Comunque triste, nonostante la generosa e serena disposizione da civil servant del professor Carlo Cottarelli, sarebbe stato infatti il varo di un governo «neutrale», che è stato per due volte utilizzato dal Presidente della Repubblica soprattutto come arma di pressione sui capipartito perché sospendessero meline, prove di forza, doppi e tripli giochi. Perché se mai fosse nato davvero, quel «governo di servizio» e appena balneare, sarebbe stato generato dal fallimento della politica. Una politica incapace per calcolo o miopia, di costruire un qualche quadro di governo e rassegnata a riportare gli italiani alle urne con l’attuale legge elettorale, che non consente di sperare in un quadro politico più chiaro.
Speriamo che il Governo che giurerà oggi ci sorprenda per l’equilibrio, la competenza e la misura ben conosciute e riconosciute in alcune delle personalità che ne sono parte. Perché l’indecente canea scatenata contro il saggio e paziente presidente Sergio Mattarella nelle ore successive al primo tentativo di formare una compagine giallo-verde dà la misura dei miasmi che ancora aleggiano e che potrebbero tornare ad avvelenare il clima delle prossime settimane e mesi. Questo non può darsi, e non deve, perché ci ritroveremmo in una stagione di amare e paralizzanti incertezze, offrendo nuova esca alla sfiducia nella testa di tanti italiani e sui famosi "mercati", con il disastroso corollario di speculazione, spread in rialzo, costi più elevati per il servizio del debito, nuovo impoverimento e via continuando in una spirale negativa. Precipitose elezioni anticipate, del resto, non sarebbero state in alcun modo una soluzione auspicabile, per i motivi già detti (potrebbero spostare qualche percentuale, non rivoluzionare l’attuale sostanziale tripolarismo) e per l’evidente ragione che una campagna elettorale permanente fa il gioco solo di chi parla alla pancia del Paese, pronto a scatenarne la rabbia.
Ecco perché siamo arrivati al paradosso di dover sperare – tutti, anche coloro che non li hanno votati – che l’anomala alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega sappia avviare una seria e utile azione di Governo. Senza nascondere le preoccupazioni alimentate dal programma anche adesso che il ministero dell’Economia e delle Finanze sta per essere affidato al professor Tria. Diciamolo chiaramente: nel "contratto" congegnato e firmato dai leader gialli e verdi ci sono intenzioni apprezzabili e condivisibili, come alcune attenzioni alla situazione dei più deboli, dei poveri, dei disabili. Ma gli strumenti individuati per raggiungere gli obiettivi fissati paiono spesso inadeguati o irrealistici perché privi di coperture. Mentre altri capitoli – tra l’altro proprio la riforma fiscale a favore delle famiglie di cui abbiamo scritto domenica scorsa – sembrano scomparsi dai radar nonostante il ritorno a un Ministero con esplicita competenza sulla famiglia e sulla disabilità.
Altre istanze poi appaiono altamente pericolose, come la troppo evocata (e assolutamente disastrosa) uscita dal sistema dell’euro o anche solo il non rispetto di alcuni basilari vincoli europei. Sarebbe come decidere di non seguire le strisce delle corsie in autostrada: si può fare, ma c’è il caso di finire fuori carreggiata e magari in un burrone. E ancora, non convince una misura come la flat tax che di fatto 'premia' i redditi più alti proprio mentre aumentano le persone in povertà e crescono le diseguaglianze sociali. Preoccupano seriamente, infine, tutte le misure discriminatorie – e già bocciate preventivamente dalla Corte costituzionale – verso i bambini stranieri, gli slogan sugli sgomberi e i rimpatri di massa, l’idea di una legittima difesa che diventa illegittima offesa.
Tuttavia, un Governo doveva nascere. Ed è auspicabile che i suoi nuovi leader escano dalla loro più o meno lunga esperienza di opposizione, lascino i toni roboanti e spesso vacui della campagna elettorale per confrontarsi con la realtà. Con la sua complessità, tragicità e bellezza. Con la carne viva delle persone, perché, ad esempio, un conto è ragionare a distanza di' sbarchi', un altro è fissare lo sguardo di chi ha attraversato il mare per sfuggire a torture, incrociare il suo dolore e le sue speranze. L’incontro con la realtà cambia: persone e politiche. L’inedito governo che nascerà, quindi, chiede a tutti maggiore responsabilità. Anzitutto a chi si appresta a sostenerlo, a chi ha votato quelle forze politiche, ma non meno a chi è scettico o decisamente contrario. Vigilando sempre, sostenendo o invece dando l’allarme, quando è il caso. Un nuovo impegno anche per i credenti, non per nulla invocato più volte nelle ultime settimane dal presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti. E da non intendere solo come un pur essenziale richiamo ai cattolici già presenti in politica o intenzionati a rimboccarsi le maniche da «liberi e forti », ma anche come una chiamata più generale. A tutti gli uomini di buona volontà variamente impegnati nei corpi intermedi e nei diversi ruoli nella società, affinché aprano gli occhi e usino competenza e passione, per essere capaci di portare fino al Parlamento e al Governo le istanze più vere e profonde dell’Italia e degli italiani, senza pregiudizi né infingimenti.
L’albero si riconosce dai frutti, e su quelli il governo andrà giudicato. Ma è compito di tutti noi controllare come viene coltivato, perché produca raccolti buoni e non avvelenati.