Chiacchiere e proiettili. Terrore e alzate di spalle. Facce - e cuore e mani - feroci contro meschinità e paure. Latitanze. Il pane quotidiano di Napoli è questo. Pane avvelenato, ma che si continua a dare in pasto, senza ritegno, a una città che non ne può più, ma che non riesce neppure più a dirlo in maniera ordinaria.
Parlano oggi per Napoli le pallottole e le grida di dolore che fanno rumore solo se si sovrappongono le une alle altre, come in un coro degli strazi che ha bisogno dei toni alti per farsi sentire e rendersi allo stesso tempo insopportabile.
Noemi, 3 anni, è l’ultima voce di quel coro orribile e assordante che sta togliendo a Napoli ogni altra parola.
L’hanno raccolta su un marciapiede davanti a un bar, in una delle piazze centrali della città, nel tardo pomeriggio, luce del giorno ancora piena e il via vai di residenti e turisti quasi incessante. Era pallida, sembrava assente; hanno pensato alla paura dopo quei colpi, sentiti da tutti, e visti sparare da molti,
che hanno seminato il panico tra i tavolini all'aperto. Ma aveva anche un forellino alla spalla. Non aveva solo assistito a quello scempio, l’ennesimo, brutale regolamento di conti tra clan rivali, con la moto che si avvicina alla vittima designata e il grilletto premuto più volte, costi quel che costi anche per chi si trova nei paraggi.
Suo malgrado ne è diventata protagonista. Niente di più ordinario a Napoli, a scorrere la lista dei bambini colpiti "a caso", o anche, sul fronte opposto, lo scempio delle baby-gang - tanto che la notizia in sé - l’agguato di camorra o altro - non avrebbe certamente avuto quel risalto che solo Noemi, 3
anni, bersaglio a caso, poteva invece assicurare. E proprio questo è il dramma vero di Napoli: accettare, quasi come destino ineluttabile il normale decorso di una violenza che suscita allarme solo se va a infrangere il velo sempre più sottile di tabù che resistono a stento. Quando è l’infanzia a essere presa di mira, o a cadere per errore nella mira dei malviventi, la sollevazione è – e non potrebbe essere altrimenti -spontanea, forte, corale: tutta Napoli balza in piedi, istituzioni in prima fila, come ad erigere barriere per una prossima volta cancellata seduta stante dai cori di sdegno e di condanna; e invece pronta a riproporsi
perché l’allarme, come suona così si spegne. Sicché viene il sospetto che sia forse il carico di un’insopportabile ipocrisia a dare più voce, e alzare il tono a condanne tanto giuste quanto, però scontate. La realtà è che non c’è intorno nessun dispositivo che serva a dare un senso appena più profondo e più
duraturo di uno squillo di sirena. La mobilitazione per Napoli, come per qualsiasi altra città, non può essere a giorni e a fatti di cronaca alterni.
Non si può mettere insieme e far convivere, come se si trattasse di fenomeni collaterali, il solito "rinascimento prossimo venturo" - alimentato magari da un aumento del flusso di turisti (che le bellezze della città meritano pienamente) e le sanguinarie faide di una violenza, organizzata o no, che ogni giorno pugnala alle spalle il futuro della città. Napoli non può essere trattata come un fenomeno da baraccone sociologico, presentandola un giorno come la terra irredimibile da ogni male (il paradiso abitato da diavoli) l’altro come la terra incantata che fa pagare a caro prezzo le sue bellezze. È vero: il mare della normalità non ha mai bagnato Napoli. Ma questa terra non è neppure un deserto. Non può rassegnarsi, pur con tutti i fallimenti alle spalle, a vedere scorrazzare per le sue strade e ogni ora del giorno, bande di criminali impegnati a regolare nel sangue - anche di altri - i propri conti sporchi. Alla fine, in questo senso, si può dopotutto considerare un problema di ordine pubblico, alla voce "difesa del territorio".
Certo, non è da questo lato che si arriva ad avere una grande visione di Napoli. Ma il fianco più scoperto ora è questo, l’attacco folle e sconsiderato di una violenza incurante di freni e ancor meno di tabù. Si potrebbe parlare di emergenza se anch'essa non avesse varcato i suoi limiti naturali. Ma non è il caso di arrovellarsi sulle più o meno giuste definizione di un fenomeno. È senza dubbio più utile prendere coscienza delle cose da fare, e costruire, o ricostruire, attorno a Napoli i suoi argini naturali. Occorre innanzitutto che tenga la speranza e che venga giustificata dai versanti giusti, primo fra tutti quello di una solidarietà sociale che si ponga come naturale barriera alla contrapposizione e alla violenza. Non si parte da zero. Senza una rete all’opera nei territori spesso inesplorati del bene comune, Napoli sarebbe
già morta.
A tenerla in vita è tutto ciò che anche in silenzio si oppone alla sua deriva. Non resta in silenzio, e alza più che può la voce la chiesa locale: quando si tratta di difendere chi più soffre i “mali di Napoli”, i
poveri e i vessati. Ma viene anche il momento di stare accanto, di capire, di formare. Soprattutto di pregare, perché anche la solidarietà, da queste parti, ha bisogno di trasformarsi in qualcosa in più. In un supplemento che si chiama amore. Napoli, nonostante le sue cronache del momento, sa di che si parla.