Giuliani-Bergamaschi-Gama, Galli Linari-Guagni, Girelli-Bonansea Mauro-Cernoia-Giugliano. Salvo addetti ai lavori ed episodici studiosi della materia, presumiamo che a pochi questa scandita rassegna di undici cognomi dica alcunché. Ma forse è un anonimato che ha le ore contate: se domani alle 13 in Francia la Nazionale di calcio femminile metterà sotto l’Australia nella gara d’esordio del suo Mondiale d’esordio, e se poi l’exploit non dovesse restare isolato nelle altre due partite eliminatorie contro Giamaica e Brasile, qualcuno inizierà a ritrovarsi familiari i nomi delle ragazze vestite d’azzurro, a tifare per loro, a far spuntare sui balconi orgogliosi tricolori come nelle 'notti magiche' imparando a riconoscere quantomeno la zazzera crespa della capitana Sara Gama.
È anche vero che oggi non tutti i tifosi sarebbero in grado dopo le purghe manciniane di elencare la formazione tipo della Nazionale maschile, ma è fuor di dubbio che una svolta sia in corso negli spogliatoi della cultura popolare più che nella tecnica pallonara. Ecco, proprio nella ormai doverosa aggettivazione della squadra c’è già la prima, indiscutibile vittoria delle nostre calciatrici, dopo quella storica di essere arrivate a contendersi quella Coppa del Mondo che i colleghi maschi hanno visto dal divano: costringerci a chiarire di quale calcio stiamo parlando, facendo così evadere lo sport più amato dal monopolio degli uomini per lasciarlo approdare in un nuovo mondo di stadi e telecronache dove non si perde tempo a ridacchiare se tra due donne si parla di marcatura a uomo e l’allenatrice la chiamano mister.
Quando gli sponsor si accorgono che sarebbe molto interessante colmare il gap simbolico tra montepremi del Mondiale maschile di Russia 2018 (400 milioni di dollari) e quello di Francia 2019 (30 milioni), iniziato ieri sera, vuol dire che è partita una caccia al 'nuovo che avanza' ormai difficilmente arrestabile. Produttori di scarpe e magliette, di integratori alimentari e parastinchi guardano verso il pallone al femminile come a un immenso mercato potenziale da spremere alla svelta, un far west di beni di consumo che fa leva sull’idea della parità effettiva come conquista anche sui campi da gioco.
Che poi questo obiettivo spinga davvero le ragazze a correre dietro a un pallone, e non piuttosto l’identica voglia di divertirsi dei maschi in un magnifico gioco di squadra dove il risultato arriva dal rispetto collaborativo dei ruoli e dalla solidarietà di quello che in campo diventa un corpo unico (specialità a ben vedere tipicamente femminile), è un discorso che ha a che fare con i modelli mediatici che ci vengono somministrati.
Ma il gioco è un’altra cosa, è la realtà che parla, è la rivoluzione che sale dai campi degli oratori e delle nostre periferie dove le squadre di calcio femminile proliferano come una nuova specie piena di vita, attorno a rettangoli verdi dove genitori rilassati applaudono figlie felici anche sotto di dieci gol commiserando papà paonazzi che gridano ai figli maschi di attaccare gli spazi e raddoppiare la marcatura, malcelando il fastidio se al pargolo viene sottratta la punizione dalla zolla preferita di Messi. Il calcio ora ha bisogno di questa linfa femminile per ritrovare se stesso come fonte di gioia per chi sta in campo e chi assiste, di una cura detox di vitamine rosa per ripulirsi da eccessi e rancori che hanno contagiato persino la tecnologia asettica del Var. Perciò auguriamo a Sara e alla sua banda di farci felici, di qui a un mese: perché è un’allegria che ci manca.