Ci siamo sbagliati. La 'legge Zan' approvata ieri in prima lettura alla Camera non è solo superflua, anche se in parte originariamente benintenzionata: è soprattutto una legge presuntuosa e rischiosa. L’intendimento di combattere i pregiudizi che penalizzano persone omosessuali e transessuali sottoposte a ingiuste discriminazioni ha ceduto il passo in corso d’opera, come si temeva, all’affermazione di un disegno teso a rimodulare fondamenti consolidati della nostra società e persino ridefinire la natura umana. Si è assistito durante il dibattito in Commissione e soprattutto in Aula come allo svelamento di quest’intento sostanziale, non dichiarato né forse in tutti i proponenti consapevole.
Ci sono almeno otto motivi che rendono questa legge ideologica e perciò potenzialmente dannosa. Meglio considerarli, per un ben possibile ripensamento nel percorso che ancora la attende prima dell’entrata in vigore.
1. L’introduzione in tutte le scuole di iniziative «contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia» nella Giornata nazionale fissata ogni anno il 17 maggio significa far entrare nei percorsi scolastici anche delle classi elementari e medie contenuti in linea con l’impianto della legge non solo tutt’altro che universalmente condivisi (come invece accade per le Giornate contro la mafia e l’antisemitismo) ma anche di più che dubbia comprensibilità da parte dei bambini. Ai quali si finirebbe per cercare di far credere che l’esperienza che vanno facendo della realtà è una finzione essendo l’umanità non declinata al maschile e femminile ma oggetto di infinite identità. Tutto questo in un’età nella quale si va formando la percezione di sé in relazione a ciò che li circonda. Chi ha letto Il Nuovo mondo di Huxley sa che il ricondizionamento della società in base alle idee di chi la guida comincia plasmando la mente dei bambini. Della cosiddetta ideologia 'gender' sinora avevamo una qualche idea: adesso la vediamo con più chiarezza, del tutto simile a quel «colonialismo ideologico» al quale il Papa – spesso chiamato in causa recentemente proprio su questo provvedimento, ma altrettanto spesso citato a righe alterne – ha riservato giudizi assai severi.
2. Lascia senza parole la pretesa di 'riscrivere' la natura umana per legge. Cos’è infatti, se non questo, il vero e proprio dizionario premesso all’articolato per definire cosa si deve intendere d’ora in poi per sesso, genere, identità di genere e orientamento sessuale? E una scuola, un centro culturale, un’associazione, una parrocchia che non si adegua? E se è lecita la difformità di definizioni, perché metterne una 'normativamente' nero su bianco?
3. È ovvio che si è reso indispensabile farlo perché troppo vaghi erano i concetti sui quali si intendevano costruire nientemento che fattispecie penali (la pretesa di educare a colpi di codice...). Il problema allora sta proprio in questa intenzione di perseguire come discriminatorie quelle che di fatto sono concezioni differenti della natura umana, oggetto di legittimo confronto e di convinzioni profondamente radicate nella coscienza di tanti cittadini.
4. E qui, come in un precipizio di fissazioni ideologiche connesse le une alle altre, entriamo fatalmente nel campo della libertà di opinione, sulla quale si è tentato di apporre lo scudo protettivo di una sorta di 'salvacondotto' che però non basta. Troppo largo è infatti lo spazio per l’interpretazione discrezionale di cosa possa istigare ad atti discriminatori o persino alla violenza.
5. Chi stabilisce dove e come si può esercitare un dissenso rispetto a quella che diventa una legge dello Stato? La scuola paritaria che non vuole celebrare la Giornata anti-omofobia può farlo o è destinata a pagare questa sua intangibile libertà? Sarà ancora lecito per un sacerdote esprimere nella predicazione – e a un catechista nella sua classe, a un insegnante a lezione, a un genitore con i propri figli – concetti che potrebbero essere tacciati di 'omofobia'? E la femminista che oggi contesta alla radice il concetto di 'identità di genere' potrà ancora farlo pubblicamente?
6. Un altro interrogativo si basa sull’autocertificazione della propria mutevole identità: se posso essere ciò che voglio, e contando davvero solo quel che io dico di me stesso, tutto è fonte potenziale di discriminazione nei miei confronti. Ma così la certezza del diritto, fondamento della giustizia, diventa carta straccia. Si pensi solo all’applicazione del medesimo criterio su larga scala nella legislazione: non resterebbe più nulla di condiviso.
7. La legge prende origine da un’asserita emergenza nazionale, con episodi di deprecabile violenza largamente reclamizzati (assai meno quando alcuni di essi vengono in seguito derubricati a banali risse di strada, come accaduto un mese fa a Padova). Ma i dati dell’Osservatorio contro gli atti discriminatori del Ministero dell’Interno offrono per fortuna dimensioni assai meno allarmanti del fenomeno smentendo che si tratti di una piaga per arginare la quale bisognerebbe rimettere mano al Codice penale.
8. Infine, c’è una questione non secondaria di opportunità e di metodo. Un Paese alle corde per la pandemia ha bisogno che il Parlamento si prenda a cuore notte e giorno le sue ferite, rimandando ciò che non è davvero impellente. Senza contare che una legge che rimette in discussione cos’è l’uomo e cos’è la donna esige un dibattito ampio, lungo e aperto davanti al Paese, ad esempio con la formula della pubblica consultazione che ha portato tutta la società francese a discutere per anni sulla riforma della legge di bioetica chiamata a decidere questioni di vita e di morte. C’è tempo e motivo per rimediare. Ci sarà la volontà di farlo?