Se non si trattasse di vite umane, e di principi decisivi per il progresso e il benessere dei popoli, si potrebbe persino ironizzare sull’odore di muffa e sul tono pateticamente antistorico delle notizie che arrivano da Cuba e dalla Cina. La blogger Yoani Sanchez arrestata all’Avana (dopo i 553 arresti di dissidenti del mese di settembre) perché «corrispondente illegale» di un quotidiano spagnolo. Gli 80 preti e le 80 suore che a Shanghai sono stati spediti a lezione di comunismo, 12 ore al giorno, 3 giorni la settimana, dopo che il vescovo ausiliare della loro diocesi, monsignor Thaddeus Ma Daqin, aveva proclamato la propria vicinanza al Papa e non alla Chiesa di Stato, «patriotticamente» organizzata e diretta da governo e partito.Nel mondo della comunicazione istantanea e globale, qualcuno ancora crede che quattro sbarre e un po’ di lavaggio del cervello possano bloccare la circolazione delle idee. E risuona, incredibile ma vero, tutto l’armamentario lessicale e ideologico che credevamo ormai riservato alle bancarelle di modernariato: «rieducazione» (quella toccata anche a monsignor Daqin, da luglio confinato nella città di Sheshan), «polizia politica», «provocatori», per finire con l’accusa di essere «al servizio degli Usa», prontamente propalata dalla tv di Stato di Cuba subito dopo il fermo della Sanchez.Non siamo tornati ai gulag del socialismo reale, e la Cuba e la Cina di oggi non sono più quelle di ieri. Ma episodi come questi, tra l’altro non isolati bensì ricorrenti, non possono essere nemmeno sottovalutati. È palese in molti Paesi la pretesa di entrare nella modernità a colpi di riforme solo economiche. L’esempio della Cina è più che chiaro. Ma anche dall’assai più modesta Cuba si levano squilli di tromba appena è permessa la proprietà di un’automobile o la privatizzazione di un negozio di barbiere. Ed è una pretesa assurda, perché l’ingresso in una "famiglia" di nazioni presuppone la condivisione almeno di una serie di principi comuni. Persino le regole del commercio all’interno della Wto, persino le norme per la gestione dell’euro (e noi europei della crisi lo sappiamo bene), poggiano su una base indiscutibile di valori. Non sempre rispettati, qualche volta elusi e distorti, ma fondamentalmente presenti e riconosciuti. Negarli in partenza vuol dire precludersi un’effettiva partecipazione e una più solida rappresentazione della propria storia.E questo è un problema "loro". Ma c’è anche un problema "nostro". Fino a che punto possiamo interagire con partner ancora così ostili al principio della libertà della persona umana, così ben incarnato nella libertà di religione? La Commissione per la libertà religiosa nel mondo degli Usa (che infatti parla di «libertà di pensiero, coscienza e religione») ha confermato che questo diritto fondamentale è di anno in anno messo in discussione in un numero crescente (e non calante) di Paesi. Tra gli stati che destano particolare preoccupazione ci sono l’Arabia Saudita e la Cina, oltre a Myanmar a cui pochi giorni fa sono state ritirate le sanzioni un tempo decise per la scarsa democrazia. L’Iraq del post-Saddam, Egitto, Nigeria, Pakistan e Turchia sono appena fuori. E tra i paesi da tenere d’occhio, il Rapporto 2012 mette la Russia, l’India e un altro paese da noi "liberato" eppure assediato di fanatismo, l’Afghanistan.Ci sono tutti, o quasi, quelli che via via riconosciamo come nostri amici, alleati o soci in affari. E che, al momento decisivo, troveremo magari schierati con il dittatore siriano Assad e con quello sudanese al-Bashir, pronti a discriminare le donne o ad accanirsi sui cristiani. E magari decisi a soffocare con l’esercito le prime richieste di libertà. Possiamo sopravvivere, e persino prosperare, anche con questa contraddizione. Ma non stupirci dei problemi che ci crea e delle sofferenze che ancora produce in tanti, troppi popoli.