Ostinarsi a che cosa?
martedì 28 giugno 2022

Perché non arriva la pace tra Russia e Ucraina? C’è qualcosa di molto oscuro, nella feroce, ostinata continuazione del conflitto e nelle propagande che la proclamano inevitabile. Una continuazione che non è solo tragica, ma che appare anche irragionevole. I costi umani ed economici della guerra, infatti, sono molto alti e decisamente sproporzionati rispetto alla posta in gioco. Può apparire brutale dirlo, ma è un fatto che, a parte Russia e Ucraina, per il resto del mondo cambierà poco se in futuro i confini tra i due Paesi passeranno un po’ più a est o un po’ più a ovest.

Accantonato – almeno per il momento – il pericolo o l’ambizione, secondo i punti di vista, di veder trasformata l’Ucraina in un’estensione della Russia, il futuro del mondo non dipende dalla sorte di Crimea o Donbass. Perché allora i principali attori della politica internazionale – Stati Uniti d’America, Cina, Unione Europea – si sono, almeno apparentemente, lasciati impantanare in una crisi locale dagli esiti tragici per i contendenti e per i poveri del mondo che subiscono i contraccolpi dello scontro?

Perché nessuno cerca davvero di fermare questa guerra? In realtà, è in corso un’altra partita, molto più grande, sul futuro degli equilibri mondiali. Anche se su queste pagine ci si sta ragionando molto. La guerra russoucraina si è inserita, infatti, in un processo già in atto, accelerandolo e aggravandolo: anche se tutti negano di volerla, è partita da tempo una corsa verso una 'nuova guerra fredda' e questo conflitto sta diventando un test per verificare punti di forza e di debolezza, alleati e nemici, tattiche e strategie, nella logica di un mondo nuovamente diviso in aree contrapposte.

Sta cadendo il principale ostacolo al ritorno dei 'blocchi': i legami di interdipendenza creati dalla globalizzazione. Se, nella vecchia guerra fredda, lo scontro tra i blocchi non è stato solo politico e militare, ma anche economico, dopo il 1989 i mercati si sono unificati sempre di più. Ora invece si sta andando verso il decoupling o friendshoring, forme di deglobalizzazione che creeranno nuovi schieramenti anche economici (peraltro impoverendo tutti, a partire dai Paesi meno sviluppati, ma colpendo anche gli altri, compresa l’Italia come ha sottolineato il governatore di Bankitalia Visco).

Il caso Lituania è emblematico di questa partita più grande. Un anno fa Vilnius ha aperto un ufficio commerciale con Taiwan. Non con Taipei (definizione geografica), come hanno fatto tutti gli altri Paesi occidentali, ma proprio con Taiwan (definizione politica). Il che significa contraddire apertamente il principio – finora riconosciuto da tutti gli occidentali – dell’One China policy. Ha alluso, insomma, all’'indipendenza' di Taiwan. La reazione di Pechino è stata durissima: declassamento della rappresentanza diplomatica e totale boicottaggio economico. L’Occidente non l’ha presa bene. Oggi la stessa Lituania blocca il transito di (alcune) merci all’interno della Russia, invocando le sanzioni contro la guerra.

Ma Kaliningrad è parte del territorio russo, anche se fisicamente separata dal resto, e Mosca protesta che, in questi casi, i trattati internazionali garantiscono libertà di comunicazione. In entrambi i casi, Vilnius ha fatto tutto da sola o c’è stato qualche suggeritore? L’Unione Europea cerca di attenuare lo scontro, ma la situazione si è fatta comunque molto pericolosa. E in Lituania la Russia sembra trovare buoni argomenti per convincere la Cina che c’è un perfetto parallelo tra la difesa occidentale dell’Ucraina e gli altolà di Washington a Pechino perché si tenga lontana da Taiwan. Insomma, per tirarla dalla sua parte, malgrado il profondo disagio cinese verso questa guerra.

È solo l’ultimo esempio di un innalzamento della tensione internazionale in cui le armi degli eserciti si alternano a quelle dell’economia in una escalation che scava fossati sempre più profondi. Davanti a tutto questo, che fanno governi, assemblee parlamentari, partiti politici e opinioni pubbliche? Il dibattito al Senato italiano ha avuto qualcosa di surreale: giusto discutere della guerra, ma la questione dell’invio delle armi nel teatro di guerra era decisiva all’inizio e, dopo quattro mesi, fermarsi lì significa ignorare che la storia corre veloce.

Mentre i diplomatici cominciano ad ammettere che i problemi stanno diventando troppo complicati per poterli risolvere, gli incontri del G7 e della Nato impongono comunque scelte importanti. Ed è ancora possibile scuotersi dall’inerzia e impedire che le distanze diventino incolmabili. Occorre credere nell’utilità del dialogo per capire davvero che cosa vuole l’altro, di che cosa ha paura, a che cosa è disponibile. Per impedire che sospetto e diffidenza di tutti verso tutti diventino atteggiamenti generalizzati.

Altrimenti la propaganda sostituirà la conoscenza e tutti ascolteranno solo la propria tifoseria, precipitando verso uno scontro sempre più duro. C’è bisogno, insomma, di tornare a parlarsi seriamente, non solo nelle sedi multilaterali o in incontri bilaterali ad alto livello, ma anche in contatti informali, riservati, vis-à-vis. E che tutti parlino con tutti, ma davvero con tutti. Lo dobbiamo non solo a noi stessi, ma anche alle generazioni che verranno.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI