Ci sono molti modi di guardare alla appena costituita Commissione Ue. Si può pensare che sia la longa manus di un’Europa efficiente sì ma solo nell’interferire con gli affari interni dei singoli Stati e nel perseguire interessi distanti da quelli concreti dei quasi 500 milioni di cittadini. Si può poi ritenere che rappresenti il vertice di un’istituzione ipertrofica (32mila dipendenti per un bilancio di 3,6 miliardi di euro) e poco dinamica, incapace di affrontare i nodi che hanno rallentato il cammino comunitario e provocato la progressiva disaffezione dal progetto continentale.
Oppure si può provare a guardare con occhiali meno distorcenti la realtà di un "governo" dei 27 (Londra alle prese con la sempre più complicata Brexit ha rinunciato a nominare un suo rappresentante), che nasce a pochi giorni da quello italiano e deve necessariamente essere posto in relazione con le vicende di casa nostra. Come è stato più volte giustamente sottolineato, la politica europea non è politica estera, bensì "politica interna". Al di là degli schieramenti e dei comprensibili slogan propagandistici, l’ingresso di un ex premier qual è Paolo Gentiloni in una delle posizioni più rilevanti, quella degli Affari economici (dove si confronterà con la sfida della Web Tax e di un piano contro la disoccupazione), segnala più che nel passato la stretta interrelazione tra i due esecutivi.
Se oggi a colpire è la parità di genere nella composizione (13 donne e 14 uomini), fortemente voluta da Ursula von der Leyen (VdL), prima combattiva e determinata presidente nella storia della Commissione, non vanno sottovalutati i messaggi sostanziali contenuti nelle scelte e nelle deleghe assegnate. Gli "euroministri", si sa, sono scelti dai singoli Stati membri, ma spetta al leader, pure espressione del Consiglio europeo e poi votato dal Parlamento di Strasburgo, decidere gli assetti. VdL ha scelto di appoggiarsi su alcune figure forti, di esperienza e continuità: Frans Timmermans, candidato dei socialisti e democratici alle elezioni europee di maggio, chiamato a guidare l’ambizioso programma "verde" per clima e ambiente; Margrethe Vestager, agguerrita liberale danese, la "signora delle tasse", come l’ha definita Donald Trump per le sue sanzioni a chi viola le regole della concorrenza; e Valdis Dombrovskis, l’ex primo ministro lettone che coordinerà le materie economico-fiscali. Di lungo corso è anche l’Alto rappresentante per la politica estera, lo spagnolo Josep Borrell, che prende il posto di Federica Mogherini, poco illuminata dai nostri media, ma il bilancio del cui mandato andrà fatto a bocce ferme.
L’agenda di von der Leyen dà priorità a tematiche che incrociano le emergenze globali declinate nella prospettiva europea: il riscaldamento e la distruzione del Pianeta (affidati al 28enne lituano Sinkevicius); i flussi migratori; i rapporti conflittuali sul fronte commerciale con Usa e Cina; la crisi demografica; i diritti e la tutela della democrazia. Solo buoni propositi come si è rimproverato al premier Conte per il suo discorso programmatico? Non è detto. E qui riemerge l’inevitabile collegamento fra l’azione di governo nazionale e quella europea. Non si può che convergere sulla necessità di modificare la Convenzione di Dublino sull’accoglienza dei richiedenti asilo; è impensabile realizzare progetti di sostenibilità senza un coordinamento sovrannazionale; non si andrà lontano perseguendo relazioni internazionali ondivaghe scollegate dalla Ue; il contrasto al finora colpevolmente ignorato declino delle nascite (benvenuta quindi una commissaria alla demografia) sarà solo agevolato da interventi di portata continentale che possano aiutare le famiglie.
La Commissione europea (i cui singoli membri dovranno avere il via libera dagli europarlamentari) propone le leggi dell’Unione e traduce le indicazioni generali che i leader degli Stati membri propongono alle riunioni del Consiglio europeo, nella dialettica con l’Assemblea votata direttamente dal corpo elettorale.
Non siamo, quindi, davanti a burocrati, ma a rappresentanti politici, investiti di precise responsabilità, la cui azione è strettamente intrecciata e, necessariamente, influenza ciò che accade in ciascuno Paese. Non è un caso che VdL abbia chiesto ai neoincaricati di visitare tutte le 27 nazioni nella prima metà del proprio mandato. Non stare chiusi nel Palazzo di Bruxelles costituisce certamente il primo passo. Familiarizzare con volti di personalità che, con le loro decisioni, possono avere (quasi) lo stesso rilievo per le nostre vite dei ministri romani è importante. Decisivo risulterà però un nuovo approccio da entrambe le parti.
Quello più dialogico, pur nella legittima spinta riformista portata anche nelle sedi comunitarie, del Conte-bis e quello più aperto, propositivo e collaborativo che annuncia la Commissione di Ursula von der Leyen. Un incontro che è nella logica propria della Ue e dalla quale, per ragioni diverse, si sono allontanate di recente sia Roma sia Bruxelles, con gli effetti a tutti evidenti. L’inversione di rotta che ora si annuncia va accompagnata con attenzione e dedizione. Perché il cammino, passati gli iniziali entusiasmi, sarà ancora difficile e accidentato.