Gentile direttore,
da giovane avvocato e lettore di "Avvenire", sono rimasto turbato dalla posizione della Cei in merito al testo normativo contro l’omotransfobia. È senz’altro vero che il nostro ordinamento prevede già adeguati presìdi per perseguire ogni azione violenta contro la persona, e per certi versi, una nuova legge contro l’omotransfobia non sarebbe strettamente indispensabile. Questo progetto di legge prevede però una tutela in più, che male non fa. Anzi, visti gli episodi di violenza registrati negli ultimi anni (diversi ragazzi pestati in quanto "froci", con un aggravante specifica rispetto al semplice reato di percosse) non vedo perché i vescovi debbano scagliarsi e dirsi "preoccupati" contro una legge che andrebbe unicamente a fornire ulteriore tutela verso le vittime di un reato. Una presa di posizione inutile e ostile, che non espone la collettività a nessuna deriva liberticida.
Gentile direttore,
sono un medico e le scrivo con stima nei riguardi di "Avvenire" e con l’affezione di un figlio della Chiesa, che la ama e, nonostante tutto, si sente ancora "a casa". Mi riferisco alla nota della presidenza della Cei in merito ai disegni di legge contro l’omotransfobia. Ritengo, da uomo e da cristiano, che essa debba essere nominata, come pure tante altre possibili motivazioni ideologiche discriminatorie. Anche solo elencarle, nominarle, significa aprire gli occhi sulla loro esistenza, imparare se la nostra visione sulle cose sia pregiudiziale o di reale conoscenza. Nominarne una in più, in questo caso l’omotransfobia, significa fare un passo avanti nella sensibilizzazione delle persone a tematiche che dai più sono pericolosamente sottovalutate. È con un grande rammarico che, da tempo a questa parte, fatico a vedere nella gerarchia cattolica (italiana) una testimonianza di accoglienza "senza se e senza ma". Ringrazio di aver conosciuto uomini e donne, consacrati e battezzati, che vivono e promuovono «l’impegno educativo nella direzione di una seria prevenzione che contribuisca a scongiurare e contrastare ogni offesa alla persona», anche lgbt. Questo non cancella il profondo disagio che ogni cattolico lgbt prova quando sente su di sé pesare ancora il giudizio di una comunità che dovrebbe, deve essere, invece, casa per tutti. Da parte mia voglio continuare a mettere il mio mattoncino per costruirla. Voglio credere di non essere il solo, e di avere il sostegno dei miei pastori.
Caro direttore,
apprezzo molto il rilievo che "Avvenire" sta dando al documento della Cei riguardo alla possibile legge per il contrasto all’omotransfobia. Trovo anche molto puntuali le domande dell’intervistatore Moia al relatore Zan. Ma penso sia solo l’inizio del dialogo auspicato dalla Cei anche con i proponenti di questa normativa. Per approfondire il dialogo, credo, saranno da porre alcune ulteriori domande. Le elenco così come mi vengono in mente chiedendo scusa per una inevitabile approssimazione. 1) Cosa si intende per omotransfobia? (i reati devono essere chiari!) non sarebbe il caso di definire in modo chiaro e inequivocabile questo reato? 2) Quali garanzie concrete sono offerte all’imputato rispetto al libero orientamento del giudice e alla sua personale interpretazione dei fatti e dell’eventuale reato? 3) Da che esiste la giustizia negli Stati liberi non si può fare il processo alle intenzioni: non sembra che ci sia il rischio di giungere a questo tipo di processo nel caso dei "reati di odio"? Chi mi assicura che la mia libera affermazione che "il matrimonio è tra uomo e donna" non possa spingere qualche esaltato a commettere gesti violenti nei confronti degli omotransessuali e che io sia ritenuto il responsabile indiretto di tali reati da parte di un giudice? In conclusione: quali misure legislative concrete sono previste nel progetto di legge riguardo a questi nodi particolarmente critici che mettono a rischio la libertà di espressione? Cordiali saluti
Gentile direttore,
su "Avvenire" del 12 giugno, l’onorevole Zan intervistato da Luciano Moia afferma che il pdl sulla omotransfobia non intende colpire la libertà di espressione, ma solo quelle opinioni che possono essere fonte di discriminazione. Avrei voluto che gli fosse chiesto più apertamente: affermare e insegnare (nella catechesi e nella predicazione, nell’insegnamento scolastico della religione cattolica) che il matrimonio tra uomo e donna è l’unico fondamento per la famiglia e che non esistono "famiglie" al plurale (anche in base alla nostra Costituzione) potrà essere considerato pensiero discriminatorio? La domanda del suo collega circa la legittimità di «affermare la verità del matrimonio fondato sull’amore tra uomo e donna» non è sufficientemente chiara rispetto al fatto che vogliamo mantenere il diritto di insegnare non solo in parrocchia l’unicità (non solo la maggiore ricchezza) di questa unione rispetto alle altre forme, soprattutto in ordine alla definizione della famiglia. Del resto, la risposta sulle «famiglie al plurale» data dall’intervistato svela perfettamente l’ambiguità del pensiero del legislatore. Difficile pretendere di più dall’interlocutore, certo: ma anche pericoloso lasciare correre i sottintesi potenzialmente vincolanti di tale ambiguità, come il titolo troppo irenistico «Omofobia, rispettiamo le idee» vorrebbe lasciar sperare.
Gentile direttore,
dopo aver letto la presa di posizione della Cei sulla proposta di legge relativa ai reati di omotransfobia, le propongo alcune riflessioni. Innanzitutto, affermare che nel nostro Paese «esistono già adeguati presìdi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio» è, di per sé, corretto, ma non tiene in considerazione che i comportamenti violenti e persecutori non sono tutti uguali. Il legislatore ha introdotto l’art. 604 ter codice penale per punire più severamente i delitti commessi «per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso» perché il nostro ordinamento non tollera alcuna discriminazione «per motivi di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3 Cost.). Ora si intende, dunque, estendere le pene più severe di cui all’art. 604 ter c.p. anche ai casi in cui le violenze siano commesse in ragione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere della vittima, accordando una tutela rafforzata a soggetti particolarmente vulnerabili. Perché mai questa scelta «rischierebbe di aprire a derive liberticide, per cui (...) si finirebbe col colpire l’espressione di una legittima opinione». L’onorevole Zan ha ribadito che il reato di «propaganda di idee» basate sull’odio etnico e razziale – disciplinato dall’art. 604 bis, lett. a), c.p. – non subirebbe alcuna modifica. Al contrario, l’art. 604 bis c.p. verrebbe emendato solo là dove punisce chi istiga a commettere oppure commette atti di discriminazione o di violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, aggiungendo all’elenco dei motivi quelli «fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere». Una limitazione alla libertà di espressione si esporrebbe, peraltro, a censure di illegittimità costituzionale.
Gentile direttore,
sono una donna che sta vivendo la sua terza vita. Nella mia prima vita sono stata cattolica una di quelle "brave" cresciuta in Azione Cattolica dai 6 ai 24 anni, a Messa tutte le domeniche e con un’idea molto chiara del modo giusto di vivere in linea con il Catechismo. Nella seconda sono stata lesbica. Quando mi sono innamorata, mi sono piano piano allontanata dalla Chiesa perché non riuscivo a conciliare il sentimento che provavo con i princìpi che nella prima mia vita mi avevano guidato. Ho vissuto la mia storia d’amore nascosta (monogama e fedele) per 16 anni, fino a quando purtroppo è finita soprattutto per la mancanza di un progetto di vita a cui la clandestinità ci aveva obbligate. A quel punto ho dovuto ricostruire la mia vita compiendo, in un momento di difficoltà emotiva per essermi ritrovata sola dopo, il faticoso passo del coming out con l’aggravante della distanza che i 16 anni di silenzio avevano messo inevitabilmente tra me e tutti i miei cari. In questo periodo ho avuto la fortuna di rincontrare, tra gli altri, alcuni preti religiosi e religiose, che hanno saputo trasmettermi che tutti noi nella nostra diversità e nella nostra unicità siamo figli di Dio e per questo "degni e degne" del Suo amore. Da quel momento sto vivendo la mia terza vita da lesbica e cattolica, frequentando gruppi e associazioni che lavorano a portare il messaggio che ogni persona è amata da Dio nella sua interezza. La mia storia non è stata semplicissima, ma è una storia felice perché nel momento del coming out non ho subito reazioni violente e non ho perso il lavoro, ma purtroppo il mio è un caso raro: ci sono molte persone che atti di violenza fisica e psicologica li affrontano quotidianamente ed è per questo che la legge in discussione è fondamentale. Uno Stato civile deve tutelare i suoi cittadini compresi quelli che hanno un orientamento sessuale o un’identità di genere diverso dalla maggioranza. È certo necessario, parallelamente, un lavoro educativo e culturale serio e aperto all’ascolto da parte di tutta la società che porti all’accoglienza dell’altro anche se è diverso da noi, ma da una tutela giuridica non si può prescindere. Sono sicura che "Avvenire", che ha già dato conto del percorso fatto da gruppi di cristiani lgbt, saprà trovare e promuovere occasioni di confronto.
È già in atto, mi pare, il «dialogo» auspicato dalla nota della Presidenza della Cei del 10 giugno scorso oltre che dalla lettrice Alessandra Gastaldi e, con accenti diversamente preoccupati, dalle altre lettere oggi pubblicate sull’ipotesi di introdurre in italia una sanzione rafforzata contro la «omotransfobia». La nota Cei, rimarcando la forza delle norme già vigenti, è andata al cuore del rischio di perseguire anche reati di opinione in tema di matrimonio e famiglia insito nei cinque progetti normativi oggi giacenti alla Camera. I proponenti hanno assicurato che tale rischio sarebbe superato nel testo unificato che verrà presentato mercoledì 17 giugno. E il deputato relatore Zan intervistato e incalzato dal nostro collega Moia su "Avvenire" del 12 giugno ha argomentato a fondo su questa linea dichiarando, in sostanza, che le norme avranno senso difensivo di persone vulnerabili e non offensivo di legittime idee. Il giorno seguente, in una nuova intervista, il deputato Lupi, è tornato a esprimere dubbi su un tale esito. Oggi due parlamentari altrettanto autorevoli, Binetti e Ceccanti, danno a loro volta voce a visioni differenti sulla conciliabilità tra possibile aggravante e libertà di opinione. Vedremo presto e valuteremo con serenità e schiettezza il testo predisposto. Qui, a me, preme solo sottolineare che il giudizio sulla struttura e sugli effetti di una specifica norma non mette in questione l’umana e cristiana attenzione nei confronti delle persone definite lgbt. Una «laicità» che la Chiesa insegna da sempre e che la nota della Cei esprime con saggezza.