La fase orale, in tutte le sue varianti simboliche, non è più il tratto elementare del nostro approccio al mondo. È un sogno a occhi aperti, un’icona dell’autorealizzazione, un orizzonte culturale vero e proprio. Quelli che lo sanno fare, avranno certamente calcolato anche questo. Il fatturato complessivo dei prodotti che sostengono gli standard della sovralimentazione occidentale, sommato a quello di tutti gli altri prodotti che provvedono alla cura degli effetti indesiderati dei primi, deve fare una bella cifra. Non so fare questo calcolo, ma mi pare evidente che la 'voracità' è ormai una categoria dello spirito, per noi, più ancora che un costume alimentare. Siamo o non siamo una 'civiltà' dei consumi? Una delle nostre idee-guida, ossia il progetto di 'non farsi mancare niente', nel breve giro di qualche decennio ha fatto passi da gigante. Il primo fattore di umanizzazione che ci rimette è il linguaggio, una delle più belle qualità spirituali del nostro corpo. Le mamme esortavano, una volta: «Non si parla a bocca piena». Anche altre cose ci raccomandavano, in verità, sempre sullo stesso registro: «Non ci si butta sul piatto», «Non ci si serve per primi», eccetera. Piccole cose del galateo, all’apparenza. Grandi passi verso l’umanizzazione, in realtà, se si pensa che la modulazione del nostro rapporto col cibo, fin dai primi sorrisi, è il mediatore fondamentale della catena simbolica di tutte le altre relazioni affettive e sociali. In ogni modo, con la bocca piena – e lo sguardo perso, e le mani sempre ad afferrare – non si parla. Si farfuglia, si emettono grugniti, ci si esprime a gesti, ci si spintona ammiccando. Non è questione di 'comunicare', come dice la parola più vacua e onnipotente della nostra dissimulata impotenza a 'pensare'. È proprio il fatto che noi ci mangiamo anche le parole: e la nostra anima si atrofizza, incapace di parlarsi e di parlare con la libertà necessaria a cercare il confronto e il conforto su tutto ciò che – in noi e negli altri – non si mangia e non si beve, non si compra e non si vende. Il secondo fattore di umanizzazione che entra immediatamente in zona di pericolo, quando siamo incapaci di rinunciare alla voracità, è l’insensibilità per tutto ciò che, fra gli umani, non ci porta cibo, saturazione, godimento, benessere servito e indisturbato. Il principio della distinzione della madre dalla tettarella, per cominciare. Diventiamo così fisiologicamente irriconoscenti, ingrati, utilitaristici. E lo diventiamo, normalmente, abitualmente, anaffettivamente. Gli esseri umani si trasformano in 'risorse'. E se non lo sono, un ingombro privo di senso. Milioni non hanno niente da mangiare (che vita è?). È spiacevole, certo. E anche noi a volte esageriamo, cosa che nuoce spesso alla salute e al fitness. Infine – ma qui non è il caso di dilungarsi: abbiamo orecchie per intendere, se vogliamo – perdiamo il dono più prezioso dell’umanizzazione (e di quella che chiamiamo, orgogliosamente, civiltà dei diritti e della solidarietà). Perdiamo la facoltà di distinguere il bene dal benessere, e il male dal malessere. E questo, più che un danno dell’umano, è il suo puro smarrimento. Il nichilismo fa le sue uova qui, e noi ce le beviamo. Ricordando l’autentica benedizione del digiuno, che scava in profondità nell’anima obesa dall’insensibilità a ogni amore, Benedetto XVI cita nel suo messaggio per la Quaresima che inizia oggi una bella e audace esegesi del grande Basilio: «Il digiuno è stato ordinato in Paradiso». Riguardava l’albero del bene e del male, che non si mangia e non si beve, non si compera e non si vende. Eppure è lì, il paradiso. E si custodisce così, la creazione dell’uomo: quando scaviamo in noi stessi l’antidoto a ogni voracità distruttiva. E riconquistiamo leggerezza dell’anima per la benedizione di Dio, che ci insegna a non consumare la terra – e noi stessi – invano.