giovedì 19 novembre 2015
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Capire. Cercare di comprendere. Altro non si può fare di fronte all’ennesimo attacco jihadista, dopo quello di gennaio, a Parigi. Militanti, mossi da un’interpretazione fondamentalista della religione coranica, aggrediscono non obiettivi militari, ma civili inermi. Ad apparire è una forma inedita di combattente: porta la guerra là dove è nato, contro la città in cui è cresciuto. Si immola, forse mosso da una ideologia della ricompensa ultraterrena, che è l’esito di una lettura fondamentalista del Corano. Ma fino a che punto è inedita questa mistica della guerra? A questa domanda, si può rispondere anche con l’aiuto di un prezioso libro, appena pubblicato da un piccolo editore, Casa di Marrani. L’autore, Roger Caillois. Titolo: 'La vertigine della guerra' (pp. 218, e. 17). A Caillois (19131978) – partecipe a Parigi del movimento surrealista, fondatore con George Bataille del Collegio di Sociologia e direttore della rivista 'Diogene' – si devono alcuni dei testi più acuti della antropologia del mito ('Il mito e l’uomo', Boringhieri), del sacro ('L’uomo e il sacro', Boringhieri) e del gioco ('I giochi e l’uomo', Bompiani).  Un’antropologia che investiga l’esistenza umana nelle situazioni limite: nella competizione, nell’azzardo, nella vertigine. Ma la situazione limite per eccellenza – ove competizione, azzardo e vertigine trovano il loro compimento – non è la guerra? È la domanda che ha accompagnato la ricerca di Caillois. Questo libro, dalla vita tormentata, iniziato e più volte interrotto, prese la sua forma attuale nel 1962, ed è diventato un classico. Dopo aver analizzato i modelli di guerra succedutisi nella storia – la guerra primitiva, la guerra cortese, la guerra imperiale, la guerra moderna con la nascita delle nazioni e l’arruolamento obbligatorio – Caillois si sofferma sulle caratteristiche della guerra contemporanea, nata con i due conflitti mondiali: la guerra totale.  Una guerra risultato delle ideologie totalitarie che hanno sconvolto il Novecento. I suoi tratti: l’universalità del territorio di combattimento, il venir meno della distinzione tra obiettivi militari e obiettivi civili, la mistica del combattente nel suo anonimato. Ciascuno e tutti possono essere un eroe. Quel che conta è annientare il nemico, in una vertigine dell’eccesso che connota di sacralità il gesto militare. Si leggano le pagine dedicate all’«ebbrezza guerresca», o a «rigore e furore» come ethos del combattente. Il combattente è un «guerriero consacrato».  Si badi: Caillois parla di vertigine della guerra a partire dalle catastrofi del Novecento. Eppure queste pagine sembrano descrivere quanto sta accadendo sotto i nostri occhi. Basti leggere le rivendicazioni jihadiste: confermano al parossismo la diagnosi di Caillois. Con la guerra totale, che dovrebbe essere la più secolarizzata, ritornano motivazioni sacrali. Un sacro inquietante, al cui nome vanno sacrificati sia i nemici quanto gli stessi combattenti. Un tremendo paradosso: la guerra più globalizzata e più tecnologica si alimenta di ideologia religiosa.  Papa Francesco, indicando l’antidoto dell’«incontro» e invocandolo ora, parla di «pezzi» di una terza guerra mondiale. Una guerra di lungo periodo? Ed è prevedibile che negli Stati liberalcostituzionali ci sarà il sopravvento del momento hobbesiano della salvaguardia della sicurezza a scapito del momento lockiano dei diritti individuali. Ma è una guerra che potrà essere vinta culturalmente a sole due condizioni: se teologicamente nello stesso islam vi sarà il prevalere di interpretazioni storico-critiche del Corano, e se nel confronto tra le religioni, come ammoniva il cardinale Carlo Maria Martini ('Figli di Abramo. Noi e l’Islam', Editrice La Scuola), vi sarà una conversione delle menti (metanoia) che spezzi quella durezza di cuore (sclerocardia) che alimenta le interpretazioni terroristiche dei libri sacri.
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