Ci siamo. Il re è nudo. Dalle carte del ministro Tria a quelle dell’Ocse, emerge inesorabilmente che le previsioni di crescita del Pil 2019 oscillano tra zero e sotto zero. Nella migliore delle ipotesi, se nulla cambierà, si potrà arrivare a 1-2 decimali sopra lo zero. Il rallentamento dell’economia nell’Unione diventa così un accentuato regresso in Italia che non ha le difese – leggasi: riforme strutturali compiute – di altri grandi Paesi, mentre un eccessivo rapporto debito-Pil irretisce l’economia e la finanza. Un raffreddore nell’Unione Europea diventa in Italia una polmonite acuta, soprattutto perché la precaria tenuta dell’economia è stata fin qui in larga parte assicurata dall’export.
È, come sempre, un problema di prospettiva: dopo un’inadeguata legge di bilancio e mentre un fosco futuro si profila, occorrerebbe dimostrare di guardare non alle prossime elezioni europee, bensì ai prossimi mesi e i prossimi anni, mettendo mano a misure straordinarie. Le riforme fin qui adottate hanno purtroppo un moltiplicatore molto basso, non in grado di attivare un processo efficacemente espansivo. Il reddito di cittadinanza ha un’apprezzabile finalità sociale in chiave solidaristica, pur scontando alcune possibili referenze negative, ma non può garantire una forte spinta propulsiva.
Per questo non sono più eludibili le questioni riassumibili sotto il titolo "investimenti, pubblici e privati, produttività, competitività, innovazione", visti sempre nell’ottica dominante del lavoro da garantire quanto più possibile. O, meglio, sottrarsi da parte dell’attuale maggioranza a questi temi – che sono altrettante sfide – significa condannarci a proseguire in quella condizione di bradisismo economico che da anni caratterizza il Paese, in raffronto con gli altri più importanti Stati europei. In queste condizioni, pur senza volere rieditare la politica dei redditi, di tutti i redditi, che pure diede un particolare impulso all’Italia dopo la crisi degli iniziali anni Novanta del secolo scorso, più che le iniziative di isolati "capitani di ventura" occorrerebbe ritrovare lo spirito di un progetto condiviso nel Paese.
Pur nel mutato quadro internazionale, governo, parti datoriali e organizzazioni sindacali dovrebbero e potrebbero trovare punti di convergenza per il rilancio dell’economia soprattutto con l’obiettivo di far crescere l’occupazione stabile, con un’azione sulla domanda e sull’offerta, che parta dalla riduzione del costo del lavoro e dalla promozione di investimenti pubblici.
Un’Italia che si mostrasse solidale, animata dalla consapevolezza piena dei rischi che si corrono e, al contempo, impegnata in un processo riformatore di lunga prospettiva, e cominciasse ad agire in tale direzione sin d’ora, potrebbe trovare aperture (a partire dalla golden rule, la sottrazione cioè dal vincolo del pareggio di bilancio degli investimenti pubblici) anche nelle istituzioni europee. E questo sarebbe infinitamente più utile dei continui battibecchi Roma- Bruxelles riproposti anche negli ultimi giorni. In un tale schema di solidale compartecipazione, potrebbe essere più proficuamente progettabile e realizzabile anche un piano organico di progressiva riduzione del debito pubblico.
Un tema, questo, non a caso fatto oggetto su 'Avvenire' di un ampio dibattito a più voci durante la campagna elettorale 2018 e messo al centro della riflessione anche da un banchiere come Carlo Messina, il Ceo di Intesa Sanpaolo (oggi intervistato da Marco Girardo a pagina 9, ndr). Una riforma del fisco sempre a parole auspicata, ma mai realizzata, dopo quella guidata ben oltre 40 anni fa da Bruno Visentini, andrebbe finalmente affrontata, con un occhio di riguardo per le famiglie e il lavoro; e, in tale ambito, muovendo con determinazione una lotta incessante alle evasioni, alle elusioni e al lavoro nero, di cui invece si è tornato troppo poco a parlare. Sia chiaro: non siamo all’indicazione di una solidarietà nazionale in sedicesimo.
Ma è il pericolo del precipizio che induce ogni persona di buona volontà, che anche solo marginalmente conosca i rischi incombenti in un pur difficile quadro internazionale, a fare tutto ciò che è possibile per evitarlo, nel caso dell’Italia di oggi impostando e sostenendo operazioni che riformino e innovino il tessuto economico-sociale e amministrativo. Le responsabilità di ciascuna parte sono e restano nette, e nessuno può illudersi di sfuggirle. Se, però, le forze dell’attuale maggioranza preferiranno marcare una loro presunta esclusiva sul 'cambiamento', se si persevererà nella miopia rispetto a problemi e rischi, se l’attenzione sarà rivolta prevalentemente alla campagna per il voto europeo visto, come una sorta di ordalìa tra le stesse forze di governo, e nello stesso tempo si indugerà su manovrepannicelli caldi (quale rischia di essere anche il cosiddetto 'pacchetto crescita'), allora le responsabilità di azioni e omissioni saranno chiare.
Non ci si può rifugiare in richieste e polemiche scriteriate, come quella sull’ipotesi di sottrazione delle riserve auree alla proprietà della Banca d’Italia, sulla costituzionalmente illegittima statizzazione di quest’ultima, sull’utilizzo in chiave propagandistica dell’inchiesta parlamentare sulle banche 'et similia'. Occorre superare una evidente condizione di stallo, perché l’Italia non regredisca in una condizione 'da stalla'. E veramente il tempo si è fatto breve.