Oltre il tempo di Covid e slogan con almeno una ricetta sicura
venerdì 18 marzo 2022

Non solo le medicine curano e i vaccini prevengono, ma anche le parole. Si tratta di abitarle con rispetto, di dosare in parti giuste realtà e speranza, di trovare il modo per far capire anche a chi è distante che ci siamo. Due anni di pandemia ce l’hanno insegnato: nel racconto dei giorni più cupi i dialoghi vanno coniugati al futuro, devono guardare oltre, nella perenne ricerca di un lieto fine che si fatica a trovare. All’inizio in realtà erano canti dai balconi, erano applausi a tempo comandato, erano disegni di bambini appesi alle finestre con fiori e palloncini, sempre rivolti all’insù, in alto.

E poi le frasi ripetute a mo’ di mantra, a realizzare un impossibile abbraccio collettivo, come i calciatori sotto la curva dopo una partita persa, che applaudono i loro tifosi perché dagli spalti non piovano fischi. Ci sono stati i giorni del «resto a casa» e del «tutto andrà bene» poi banalizzato nel più facile «andrà tutto bene», che significa spostare il faro dell’attenzione dal noi, da chi soffre, al tempo che verrà, per forza buono.

Lo stesso è capitato con le persone, che erano visi, storie di solitudini e riscatto, erano lacrime di compassione e in poco più di un attimo sono ridiventate numeri, statistiche, diagrammi per spiegare la curva dei contagi. Fatale che fosse così, dice il cinico che è in noi, ma è successo troppo in fretta. Non siamo riusciti a capire bene il senso degli slogan, soprattutto di quel «siamo tutti sulla stessa barca», che era al tempo stesso denuncia della propria fragilità e attesa di un timoniere cui affidare la rotta per uscire dalla tempesta. Sullo sfondo la gigantesca immagine solitaria del Papa in una piazza San Pietro deserta, sotto la pioggia, con il sibilo delle sirene mescolato al rintocco delle campane, denuncia di vita fragile che si intreccia quasi naturalmente con la chiamata alla preghiera. Perché il cristiano sa a chi guardare ma spesso dimentica che affidarsi non basta, bisogna parcheggiare il narcisismo in stand by, aprire le porte del cuore all’altro, lasciarsi mettere in crisi dalle sue solitudini.

D’altronde «nessuno si salva da solo» cos’altro vuol dire se non che la risposta sta in un’unica parola, meglio in un avverbio: “insieme”? A significare ponte, legame, a indicare l’ingrediente indispensabile per la costruzione di una comunità. Facile da dire, difficilissimo da realizzare. Lo vediamo in realtà di territorio abnormemente sfilacciate, in corporativismi di nuovo esasperati, in un tessuto sociale frastagliato con buchi sempre più larghi e non sai da che parte iniziare con il rammendo. Ma anche il nostro piccolo quotidiano si è certamente impoverito.

Se non abbiamo perso parenti e amici, com’è capitato purtroppo a tantissimi, abbiamo visto sfumare storie e relazioni, ci sono visi un tempo comuni che non incontriamo più, ferite che magari si sono allargate proprio per quelle stesse frasi con cui volevamo guarirle.

Due anni di pandemia sono un’eredità pesante, e neppure una guerra aperta in Europa, nel 'nostro' mondo, ce la fa sembrare leggera. Indicano una strada di sacrifici e condivisione, che fatichiamo a percorrere. Dicono che la globalizzazione necessaria dev’essere la cura dal basso, a partire dagli ultimi, dagli abbandonati. Non è più tempo di slogan, ma di immagini e sogni calibrati sugli altri, con i volti finalmente liberi dalle mascherine. Sguardi come ami per pescare, occhi negli occhi, la stessa fragilità, la medesima voglia di risalita. Dubbi al servizio delle domande che ci facciamo tutti. La prima riguarda quel che sarà di noi: 'Quando ne usciremo, e come?'. La più banale e insieme rivoluzionaria si consuma invece in un semplice saluto: 'Come stai?'.

Dove lo straordinario consiste nell’aspettare davvero la risposta. Perché l’eccezione da far diventare regola, l’ingrediente indispensabile per realizzare una normalità diversa, il cemento delle nuove comunità, non è fatto di parole ma di silenzi. Si chiama ascolto.

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