L’Olimpiade della pandemia delle emozioni, dei 100 metri di Jacobs, dell’oro diviso in due di Tamberi nel salto in alto, dei 93 Paesi sul podio (6 più di Rio), della staffetta razzo azzurra, degli Usa che battono la Cina all’ultima medaglia, degli stadi vuoti e dei cuori pieni.
E’ finita già da due giorni, e non è facile dire cosa è stata. Sudata e bollente, in apnea, sotto vuoto, piena di provette e scartoffie, chiusa come i bar, i ristoranti e i cervelli di qui, aperta solo a navette congelate che per portarti dall’altra parte della strada circumnavigavano spazi grandi come regioni, vuota di gente, ricca di lacrime, di smorfie, di persone vere e di risultati forse, di italiani che corrono più forte dei giamaicani e degli americani, di cose impossibili sulle quali dubitare non è giusto né corretto ma che è logicamente necessario almeno cercare di capire, di imprese straordinarie, di televisioni che non sanno più cosa dire e intervistano anche lo zio del portinaio di chi va sul podio, di campioni con la mamma che fa la badante che non ha tempo per celebrare in pubblico il figlio d’oro perché ha una signora da accudire, di senso del dovere e di senso da trovare, anche quando di senso non ce n’è.
Vasco Rossi non c’era, la pista rossa con l’azzurro sopra sì, le lealtà e gli abbracci, il mondo capovolto, San Marino sul podio, le bambine pure, due norvegesi senza spiaggia che vincono il beach-volley, il Giappone che non ha capito perchè siamo venuti qui a disturbare ma che poi ci ha salutati con tanto calore, scoprendosi commosso e davvero dispiaciuto che fosse finita. Il Covid ha influito tanto, non in gara ma prima. Escludendo qualche favorito sin dalla vigilia, ribaltando i piani, obbligando a frenate e poi a rincorse: atleti che vivono solo per questo appuntamento hanno patito mostruosamente l’attesa, il lockdown li ha stremati, facendo crescere chi era più forte dentro e pugnalando chi aveva solo gambe e braccia potenti.
E’ stata l’Olimpiade delle prime volte, a decine, per tutti, senza eccezioni, sul podio e non solo. La prima volta dello skateboard e dell’arrampicata, la prima e l’ultima del karate, la prima medaglia in assoluto di Hong Kong, Bermuda, del Burkina Faso e di altri ancora, la prima d’oro delle Filippine, dell’India nell’atletica, la prima di Israele nella ginnastica ritmica dopo 32 anni di dominio sovietico. E’ il destino dello sport globalizzato, del mondo che si mischia, delle piccole grandi nazioni, dove chiunque impara a diventare forte perché non ci sono più confini, nessuno ha più l’esclusiva, solo volontà, anche senza tradizione. Appena due discipline maschili hanno imposto gerarchie antiche, il solito Brasile nel calcio, gli inevitabili Stati Uniti nel basket: infatti sono gli sport meno olimpici di tutti, ricchi alieni travestiti per la festa.
Altre conferme: l’America prima nel medagliere, l’impressione che non esista comunque nulla di più bello di un’Olimpiade, delle sue facce, dei suoi gesti lucidi, della vita che ci scorre dentro. Ci fosse stato il pubblico sarebbe diventata anche la più bella della storia. Non sarebbe stato giusto cancellarla comunque: era un tributo indispensabile alla fatica degli atleti, una ricompensa dovuta.
Sono stati i Giochi del Giappone, mai così alto nel medagliere, mai così bravo a scoprirsi abile in discipline mai frequentate. Ha vinto tanto, ha insegnato a perdere. Quando Kiyou Shimizu ancora con la medaglia d'argento del karate al collo piangendo in diretta tivù ha chiesto scusa ai giapponesi per non aver fatto il suo dovere, abbiamo capito che esiste un senso dell’onore forse esagerato ma a noi sconosciuto. E che applaudire è meglio che obbligarsi a capire.
Sono state le Olimpiadi della Russia senza bandiera, e delle bandiere con nessuno che le guardava, dell’Italia prima in Europa per numero di podi, che li ha scalati in 19 discipline (mai così tante), che vince senza palestre e piscine: 40 medaglie contro le 36 del 1932, Malagò più forte di Mussolini. Ci hanno tradito tutte le squadre, con il volley femminile in testa deluso dalla stella annunciata, quella Egonu troppo personaggio anche suo malgrado. Si sono esauriti i filoni aurei dei tiri e della scherma, che litiga da anni e si è fatta infilzare da parole inutili e molti veleni interni. Il nuoto ha salutato la Divina, che è uscita tra gli applausi dalla piscina per entrare nella stanza dei bottoni: il ruolo al Cio della Pellegrini è più prestigioso che sostanziale, ma potrebbe essere solo l’inizio. E poi Paltrinieri, coraggioso ed eroico, che nuota più forte della malattia, fallisce gli 800 ma poi porta a riva due medaglie strepitose. E la coppia mista che vince nella vela, altra prima volta, tanto per confermare la regola. E poi ancora, Ganna e i suoi fratelli in bicicletta come missili spaziali, la Palmisano che marcia come nessuna mai. Sono stati i Giochi delle azzurre, tante, brave, mature: donne forti in discipline dure, altro stereotipo che cambia. Come tutto.
E’ stata, per tanti, l’Olimpiade delle debolezze condivise, delle ansie e dei mental-coach, del cervello da portare sul podio. E delle sorprese, di quelli che non ti aspetti, del Canada femminile che vince nel calcio con le americane solo terze, degli stessi Stati Uniti che crollano in pista nello sprint, della caduta clamorosa di Djokovic nel tennis. Cercare spiegazioni non è facile, e anche parecchio inutile: è lo sport che ridà le carte, e all’Olimpiade i mazzi hanno spesso gli assi messi in fondo. Davanti ci sono le storie, mille, meravigliose. Come quella di Artur Naifonov, 24 anni, russo, bronzo nella lotta libera: nel 2004 fu uno dei 700 bambini sequestrati durante l’assedio e la strage alla scuola di Beslan, in Ossezia: è cresciuto, non ha dimenticato, ha vinto.
Abbiamo detto tanto, dimenticando di certo qualcosa. L’Olimpiade ti prende e ti confonde, perché è fatta di cinque cerchi con tutti i colori dell’universo dentro, c’è il fiato del mondo, una carezza e un pugno. E’ finita meglio di come era iniziata, è arrivata in fondo comunque, più forte della pandemia, brava a contenerla e a non farsi mordere troppo: lo 0,2% dei contagiati in tutto nella famiglia olimpica è un altro record in positivo da segnare. Cinque anni per arrivarci, tre anni per aspettare la prossima. Sarà Parigi, poteva essere Roma, e questo è un rammarico grande. Dissero di no quelli che la governavano e la governano ancora, una follia difficile da perdonare. Questa è storia, il resto è filosofia.
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