A due anni esatti dallo scoppio della guerra civile etiope in Tigrai è stato firmato mercoledì 2 novembre a Pretoria, in Sudafrica, un primo e faticoso accordo di pace. Grazie alla mediazione dell'Unione Africana il conflitto tra governo federale e autorità tigrine, poi allargatosi a tutta la parte settentrionale del secondo Paese africano più grande, è finito. La debole Ua, politicamente troppo piccola per un continente così grande, fatto alla fine ciò che la grande e forte Unione Europea non riesce a fare nella guerra russoucraina. E così è arrivato anche lo stop anche al blocco degli aiuti umanitari in atto da 15 mesi che ha stremato 9 milioni di etiopi già provati dalla siccità. In cambio i tigrini hanno accettato l'unità nazionale e un disarmo graduale delle loro truppe di difesa. Una notizia attesa da chi ama l'Etiopia e la pace.
Pur con le dovute cautele, l'accordo raggiunto a Pretoria per un «cessate il fuoco permanente» è il primo, importante punto fermo ufficiale dopo due anni di guerra oscurata e dimenticata che, secondo gli esperti e le organizzazioni umanitarie è forse la più grande per numero di vittime tra quelle combattute in questo drammatico primo scorcio del Ventunesimo secolo. Le stime oscillano tra 350mila e mezzo milione di morti provocati dai combattimenti, dai massacri di civili e dal blocco degli aiuti umanitari. Gli sfollati interni sono invece due milioni e cinque milioni le persone che dipendono dagli aiuti
per sopravvivere. Numeri da catastrofe, ma il blackout comunicativo voluto da Addis Abeba ha impedito a media e Ong di denunciare efficacemente l'orrore. Anche le trattative – come il conflitto – sono state avvolte in una cortina di silenzio. Le parti convocate a forza dall'Unione Africana dopo un'aspra ripresa degli scontri ad agosto, hanno messo alle corde i due mediatori, gli ex presidenti nigeriano e keniano Obasanjo e Kenyatta, fino alla firma finale Nessuno si fa illusioni e non solo per le denunce di violazione del cessate il fuoco che già piovono. Diverse questioni che hanno determinato la guerra non vengono affrontate nel testo infine firmato a Pretoria.
A cominciare dal ritiro dal Tigrai delle truppe eritree, alleate di Addis Abeba dal 2018, e mai menzionate. Era il tempo della pace con Asmara che fruttò il premio Nobel nel 2018 al giovane premier etiope Abiy Ahmed. Premio quantomeno precipitoso visto che un anno dopo lo stesso premier non aveva esitato ad attaccare, assieme agli eritrei, una parte del suo stesso Paese, arrivando a indebitare pesantemente l’Etiopia per acquistare armamenti pesanti e droni armati per ribaltare un conflitto che sul campo, 12 mesi fa, lo aveva visto presto soccombere.
Resta poi irrisolta la tensione politica tra Abiy, intenzionato a riformare l’Etiopia, secondo un progetto centralista per superare le divisioni tra le tante etnie che lo compongono, e i leader tigrini del Tplf, alla guida del governo nazionale dal 1991 al 2018 con pugno di ferro e un progetto federalista agli antipodi di quello del premier e che non volevano venire estromessi.
Ora per rafforzare la pace serve urgentemente una soluzione politica per restare sotto lo stesso tetto dopo due anni di guerra. Altro scoglio da affrontare, la questione chiave del Tigrai occidentale conteso con gli Amhara, le cui forze regionali accanto ai federali sono state accusate di aver compiuto pulizia etnica sui tigrini. Per vendetta le truppe tigrine sono sconfinate l’anno scorso nella regione Amhara e hanno commesso analoghe distruzioni e atrocità contro i civili. Quindi è chiaro che non vi sarà vera pace senza giustizia, e senza chiarezza. La guerra è stata contraddistinta da massacri di civili, come ad Axum e Humera, e da innumerevoli stupri commessi da entrambe le parti come recentemente ribadito dalle Nazioni Unite. Una commissione indipendente dovrà individuare i colpevoli e farli processare.
Ma non basta cercarli in Etiopia. Molte violenze, stragi saccheggi e distruzioni sono state infatti attribuite ai “soldati in sandali di plastica”, gli eritrei, attori importanti nel conflitto. Per quanto improbabile, proprio il dittatore Isayas Afewerki dovrà collaborare ora con le Nazioni Unite. E potrà farlo, per cominciare, liberando il vescovo cattolico di Segheneity, Abuna Fikremariam, arrestato all’aeroporto di Asmara il 15 ottobre e fatto sparire perché apertamente contrario alla guerra. L’Etiopia è a un bivio decisivo. Deve ricostruire un territorio devastato e un tessuto sociale lacerato.
Provi a restare sul sentiero della pace tracciato dagli africani stessi per gli africani, guardando all’esperienza del Sudafrica degli anni 90. Se il premier Abiy saprà dar vita a una commissione nazionale per il dialogo, la riconciliazione e la verità che ascolti vittime e carnefici, ci sarà la pietra angolare sulla quale costruire pazientemente una nuova Etiopia. Un metodo che vale per il mondo.