Sono tre gli articoli della Costituzione – l’articolo 3 sulle formazioni sociali, l’art. 5 sulle autonomie locali e attività e l’art. 29 sulla famiglia – che si ispirano al personalismo, corrente politico-culturale fondata da Emmanuel Mounier nella Francia degli anni Trenta in polemica verso l’individualismo liberale da una parte e il collettivismo socialista dall’altra.
Da allora, molta acqua è passata sotto i punti. E non c’è dubbio che, nella seconda metà del Novecento, finita l’esperienza sovietica, l’individualismo ha vinto. Al punto che il personalismo è addirittura sparito dal dibattito pubblico. Una sconfitta riconosciuta persino dal filosofo Paul Ricouer che nel 1983, in occasione del 50º anniversario di fondazione della rivista Esprit, pubblicò un articolo dal titolo eloquente: “Muore il personalismo, ritorna la persona”.
La vittoria dell’individualismo si è realizzata prima di tutto sul piano culturale: a destra, col neoliberismo che ha fatto della libertà di scelta la propria bandiera; e a sinistra, col progressismo, che ha ripensato l’idea di uguaglianza a partire dai diritti individuali.
Grazie a questa convergenza di fondo, l’individualismo ha poi concretamente plasmato i modelli istituzionali delle democrazie avanzate. Si parla a questo proposito di “individualizzazione” per indicare una situazione in cui l’intera vita quotidiana – i suoi tempi, le sue attività – viene integralmente organizzata attorno agli impegni dell’Io, senza obbligazioni stabili nei confronti di altri. Come dice un noto slogan pubblicitario: “Tutto intorno a te”.
Oggi, però, di fronte alle tante crisi che affliggono il nostro tempo, quella dell’individualismo si sta rivelando una vittoria di Pirro. È infatti sempre più evidente che parte dei problemi più urgenti altro non sono che effetti collaterali del successo di questo modo di organizzare la vita sociale. Basti pensare ai temi ambientali (col cambiamento climatico origine degli eventi atmosferici estremi di questi giorni) o alle tante tensioni che attraversano le democrazie contemporanee (inverno demografico, disuguaglianze, dipendenze, etc.). Tutte questioni che non sono risolvibili senza recuperare la costitutiva relazionalità della persona, fulcro distintivo del personalismo. In effetti pensare la persona come radicata nelle sue relazioni potrebbe costituire, oggi più di ieri, una prospettiva risolutiva per il XXI secolo, caratterizzato da una interdipendenza che l’individualismo non riesce a capire e quindi ancor meno a risolvere.
Tanto più che le idee di Mounier e dei redattori di Esprit hanno trovato via via importanti conferme negli sviluppi della scienza contemporanea. Oggi noi sappiamo con certezza che ogni forma di vita, da quella più semplice (monocellulare) a quella più complessa (umana), si dà solo in relazione a ciò che la circonda. L’idea di un individuo vivente separato da tutto e da tutti è una pura astrazione. Che alla fine è causa di grandi disastri. Non c’è però da farsi illusioni. L’individualismo e l’individualizzazione continuano a essere saldamente al centro della nostra società.
Nonostante i tanti problemi che dobbiamo affrontare, questa ideologia – perché a questo punto di questo si deve parlare – continua a essere dominante. Ma poiché sappiamo che la realtà è superiore all’idea, si può nutrire la ragionevole speranza di trovarci alla vigilia di una nuova stagione in cui il personalismo, in una versione adeguatamente rivista e aggiornata, possa tornare a segnare la vita politica e sociale delle società avanzate. Gli oltre 60mila giovani italiani che stanno raggiungendo Lisbona per la Gmg marciano ad esempio in questa direzione. Alla luce delle encicliche Laudato si’ e della Fratelli tutti, si può davvero lavorare per un cambio di prospettiva. Tanto necessario quanto urgente.
L’individualismo ha vinto, ma il personalismo aveva ragione. Si vedrà se, ad un secolo di distanza, questa preziosa radice saprà ancora essere vitale.