È un dilemma noto eppure nello stesso tempo di ardua soluzione: come agire quando vi sia una situazione di grande emergenza umanitaria presso una popolazione dominata da un regime dispotico che viola le più basilari norme del diritto internazionale e che calpesta ogni dignità umana? Scegliere di offrire – anche solo indirettamente – riconoscimento e sostegno a regimi crudeli al fine di soccorrerne la popolazione o tenere con fermezza il punto, lasciando che siano i civili più vulnerabili di quel Paese a pagare il conto maggiore?
In questi mesi la difficile scelta si è riproposta con forza con il crollo del governo afghano e il ritorno prepotente dei taleban a Kabul, favorito dai catastrofici errori compiuti da Washington nel gestire la transizione in Afghanistan. Il governo Draghi ha avuto il coraggio di chiedere alla comunità internazionale di rispondere in modo unitario, organizzando un G20 straordinario in questo mese di ottobre.
Ma le notizie che giungono da Kabul, con le continue atrocità commesse – ultime le voci non confermate sulla decapitazione di una giovane atleta afghana colpevole solo di aver giocato a pallavolo – ripropongono questo problema, che non è tanto giuridico o teorico, ma che influisce sulla vita concreta di milioni di persone che lottano per la sopravvivenza e una vita appena dignitosa.
Inutile negare che ogni aspetto dell’emirato islamico afghano susciti orrore, per il disprezzo per la vita umana e per le donne in particolare, per la violenza cieca commessa in nome di pratiche tribali barbare e di una applicazione tanto fanatica quando distorta delle norme giuridiche islamiche. Non è e non sarà mai possibile per Paesi liberi e democratici riconoscerlo come governo legittimo. Ma questa fermezza non può e non deve essere pagata da una popolazione sull’orlo della catastrofe umanitaria e che noi abbiamo illuso e poi abbandonato. L’Unione Europea ha promesso aiuti importanti (per quanto nemmeno lontanamente adeguati agli enormi bisogni), anche se, forse, lo ha fatto guidata soprattutto dal timore dell’arrivo di ondate di profughi. E ha rilanciato l’idea dei 'corridoi umanitari'.
Che sono un canale utile e importante per aiutare chi deve fuggire dalle vendette dei taleban ma non offrono risposte ai milioni di afghani che rimangono nel Paese, e che devono affrontare lo spaventoso tracollo della loro economia. Sia pure in un contesto profondamente diverso, è il quesito a cui non abbiamo saputo dare una risposta chiara in Siria. Lì, il presidente-dittatore Bashar al-Assad ha vinto la lunga guerra civile, sconfiggendo i nemici interni ed esterni, grazie all’aiuto di Russia e Iran.
Ma si ritrova alla guida di un Paese distrutto, con milioni di siriani profughi, sia all’interno sia all’esterno delle frontiere del suo Stato. Servono molte centinaia di miliardi di dollari per la ricostruzione e solo la comunità internazionale può avviare questo sforzo enorme. Ma ovviamente impegnarsi significherebbe inevitabilmente anche rafforzare l’attuale sistema di potere. Da qui le esitazioni o gli interventi a goccia per alleviare le sofferenze del popolo siriano, spesso portati avanti fra mille difficoltà dalle organizzazioni non governative (e molte di queste sono cattoliche).
La ragione di stato spingerebbe a dire che non si aiutano tiranni in Siria o movimenti politici criminali come i taleban in Afghanistan. Ma dinanzi alle sofferenze di milioni di donne, uomini, bambini e anziani che soffrono doppiamente, per via dell’oppressione politica e per la mancanza di aiuti, tanto il cuore e la testa ci devono spingere a cercare ogni via possibile per far arrivare aiuti concreti a queste popolazioni. Trattando per avviare programmi di assistenza e di ricostruzione i cui fondi siano il più possibile gestiti e controllati a livello internazionale, e distinguendo chiaramente fra impegno umanitario per i popoli e riconoscimento politico per i loro governanti.
Perché in fondo, quando si parla di sicurezza internazionale non dobbiamo mai dimenticare che la vera posta in gioco è creare la cosiddetta Human Security, ossia quella sicurezza umana (e umanitaria) che mette al centro i popoli e i loro bisogni, e non già solo la sicurezza delle frontiere statali. E cercare di garantire la dignità di popolazioni inermi rimane, oggi più che mai, un dovere politico e morale ineludibile.