venerdì 4 dicembre 2015
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Capire, prima di piangere ancora. Capire se c’è una ragione, per atroce che sia, che spieghi la strage di San Bernardino in termini di logica umana, senza gli alibi rapidi della follia. Due giovani sposi sotto i trent’anni, lui laureato, ispettore sanitario, lei che ha partorito un figlio sei mesi fa, trasformati in un commando d’assalto dentro una casa per disabili, nel cuore d’un giorno di festa; tute da guerra, armi micidiali, massacro, morte. E poi la fuga, la caccia dei blindati della polizia, e la morte inghiotte anche loro. Finito.Finito? È qui la follia, la seconda follia di chi pensa di aver ricomposto i frantumi della prima come un fatto ineluttabile, magari dopo aver decifrato i moventi e sistemato l’accaduto nelle caselle del catalogo criminale; terrorismo interno, forse; o forse gesto isolato di gente impazzita, chissà; o invece qualcosa di lucido, una crudeltà risoluta, brutale, ferina. Ma sono in ogni caso le armi da fuoco, i fucili e le pistole, che hanno sfogato la violenza di chi le imbracciava in una carneficina; e quegli attrezzi di guerra e di morte erano stati acquistati legalmente, con la benedizione della legge americana. Dite se non è una legge folle quella che sancisce il diritto di avere armi come una specie di inviolabile libertà individuale, senza controlli. All’indomani della strage di bambini nella scuola elementare di Newtown nel dicembre 2012, (27 uccisi), fu proposto un emendamento per imporre almeno una visura sui precedenti penali o mentali degli acquirenti: il presidente Obama lo appoggiò fortemente, ottenne anche un’intesa bipartisan di vertice, ma il disegno di legge fu bocciato, vergognosamente, dal Senato e naufragò. I commentatori segnalarono allora che più dell’idea di libertà e di sicurezza contava la potenza della lobby delle armi. E adesso? La nuova strage ancora muove, oltre la rampogna, l’indignazione. E da noi in Italia, dove serpeggia a volte una voglia di armi in casa (per difesa, si capisce) la ricorrente tragedia americana può insegnare che la sicurezza sociale ne viene globalmente più minacciata che favorita. Una cultura che affida alle armi da fuoco la precauzione amplifica il livello della paura e dell’aggressività reciproca, come in un gioco di specchi. Ed espone fatalmente ai rischi dei gesti irresponsabili: il raptus del fucile o della pistola è in agguato talvolta anche fra noi.Ma non è tutto qui. C’è un pensiero che scava in un cerchio più interno di quello delle armi, e s’interroga sullo spirito di chi uccide così. Certo si può uccidere anche con un coltello, una pietra, o con le mani nude; ma ciò che colpisce un bersaglio resta diverso dalla raffica cieca che falcia nel mucchio. Bisogna capire che cosa travolge i freni inibitori, scatena la rabbia, squassa l’equilibrio mentale, fa prevalere sui circuiti razionali le incontrollate emozioni distruttive. Nella vicenda di California, le prime paure fulminee di terrorismo non sono ancora dissipate; e se così è, un altro anello si aggiunge alla catena. Ma si affacciano anche ipotesi di una privata vendetta, o ritorsione, per dissapori, dissensi, antagonismi, forse in campo professionale. Una strage per un corruccio, insomma, fatta da una "persona normale". Se è così, la banalità del seme d’una violenza così atroce ci scuote a cercarne il rimedio sociale in una cultura più attenta al rispetto, che resta l’opposto dell’«armiamoci tutti contro tutti». Una cultura, e una educazione, opposta a quella volontà di potenza che impedisce di elaborare le emozioni negative, le offese, gli impulsi vendicativi; che spegne i circuiti razionali e porta a galla la distruttività umana.
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