Luoghi comuni e fatti reali. Non è solo carcere
venerdì 17 novembre 2023

«Per dare attuazione al principio costituzionale del ruolo educativo della pena, occorre che i detenuti siano posti in condizione di lavorare nel carcere e che abbiano spazio sufficiente per attività quali sport e altre». Così ha detto il Guardasigilli Nordio al convegno “Vent’anni di Garante di Roma Capitale”. E ha aggiunto che uno dei primi obiettivi è «ridurre l’affollamento carcerario», non solo individuando «strutture compatibili con l’espiazione della pena, dove esistano spazi idonei allo sport e alla dignitosa vita carceraria», ma anche diminuendo la popolazione carceraria: «La maggior parte dei detenuti sono in prigione per reati cosiddetti minori e bisognerebbe trovare soluzioni che non li facciano stare in carcere, con forme di espiazione alternativa da eseguire con l’aiuto delle amministrazioni territoriali, predisponendo una serie di strutture alternative alla prigione che possano assicurare la presenza dell’arrestato senza però intasare le strutture carcerarie».

Speriamo che alle parole seguano i fatti. E che questi buoni propositi non siano smentiti (come invece parrebbe, anche da quanto deciso dal Consiglio dei ministri di ieri) da provvedimenti che – ancora una volta – seguano l’opposta filosofia del carcere come unica risposta ai nuovi fenomeni criminali. La pena detentiva come ultima ratio, il ruolo educativo delle pene, il superamento del concetto di carcere come pura segregazione (attraverso lo studio, il lavoro e l’apertura alla società esterna) erano le ricette messe a punto, nel 2017, dalla Commissione presieduta dal professor Glauco Giostra.

Ma, in larga misura, quelle misure rimasero disattese. Lo stesso esecutivo che aveva nominato la Commissione arretrò, probabilmente timoroso, di fronte a un vicino appuntamento elettorale, di urtare gli umori di un’opinione pubblica il cui palato, dall’inizio degli anni Novanta in poi, è stato educato all’idea ossessiva del “buttare via la chiave”: più reati, pene più alte, circostanze aggravanti sempre più severe.

Questo giornale lo scrive da sempre: l’unico modo per smontare un luogo comune è affrontare i fatti reali che lo alimentano. Questo vale anche per il carcere. Se un ergastolano condannato per l’omicidio della fidanzata, al primo permesso premio aggredisce una donna, non si può ignorare questo fatto. Ma si può combattere l’opinione che questa sia la quotidiana realtà. E l’unico modo per sfatare questa idea è di far parlare i numeri. Ad esempio, ricordando che contro l’1,08 per cento di casi in cui il detenuto che ha ricevuto un permesso commette un reato oppure non rientra in carcere, c’è un 98,92 per cento dei casi in cui va tutto bene. Questo dato non comparirà mai nei titoli dei giornali. Non diventerà mai “virale” nella rete.

Così come non verrà mai strillata la notizia (riportata dal magistrato Marcello Bortolato e dal giornalista Edoardo Vigna nel loro Vendetta pubblica, il carcere in Italia), che su dieci detenuti nelle nostre carceri, una volta tornati in libertà sette tornano a delinquere; ma che questa recidiva crolla (fino all’uno per cento) per i condannati che, durante la detenzione, hanno potuto lavorare. La vera notizia è che ciascuno di quelle migliaia di permessi di soggiorno conclusi col regolare ritorno in carcere del condannato è un piccolo passo per restituire alla società, al termine della pena, un cittadino migliore di quando era entrato in prigione. Per diminuire il rischio che il condannato torni a delinquere.

Perché, nella quasi totalità dei casi, i permessi vengono utilizzati per visitare la famiglia, per cominciare la ricerca di un lavoro, per riannodare i rapporti col mondo esterno. E tutto ciò serve non solo a rendere il carcere più umano ma anche a garantire più sicurezza all’intera comunità. Non siamo così ingenui da pensare che la funzione del carcere possa essere esclusivamente “rieducativa”. Sappiamo che, nel caso di reati gravi, il carcere ha anche una funzione di deterrenza e di difesa sociale, diretta a impedire che ciascuno si faccia giustizia da solo. Il punto è che ognuna di queste funzioni “tradizionali” deve essere letta e lumeggiata dall’articolo 27 della Costituzione.

La «rieducazione del condannato » deve essere la lente con cui interpretare anche l’inevitabile necessità della difesa della convivenza civile. E a chi ancor oggi, non avendo mai messo piede in un carcere, lo racconta come un lussuoso albergo, bisognerebbe ricordare la battuta del protagonista del film Riso amaro del 1949: « Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’è mai stato».

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