Nella vita non possiamo scegliere se soffrire o meno. Le sofferenze arrivano, senza chiedere il permesso. Sono diverse, ci toccano da ogni dove, con diversa intensità; talvolta in modo improvviso, violento, destabilizzante. Ci spiazzano, fino a farci perdere il fiato e l’orientamento. La cosa più difficile, forse, è che potrebbero non avere un 'perché ' o, per lo meno, questo potrebbe essere molto nascosto, lasciandoci nello sconcerto e nel non-senso. Allora, cosa ci resta da fare? A Napoli c’è un proverbio: « Se po’ campa senza sapé pecché, nun se po’ campà senza sapé pecchi'.
Lo si potrebbe declinare anche rispetto al soffrire. Si può soffrire senza sapere un 'perché', ma non si può soffrire senza sapere 'per chi'. Gesù nella sua vita e nella sua passione sin dall’inizio ci ha confidato il 'per chi' vale la pena affrontare le sofferenze: «per noi uomini e per la nostra salvezza». Ed è per noi, per ciascuno di noi, che ci ha mostrato anche come combatterle, ma anche come accoglierle: con la debole potenza dell’amore che tocca e si lascia toccare e così guarisce, risana, rialza chi è caduto. Gesù nella sua vita e nella sua passione d’amore e di morte, ci ha introdotto nella possibilità di dare un senso più grande, anche quando il soffrire sembra non averne alcuno, specie il soffrire dell’innocente: e qui cala il silenzio che si fa invocazione, grido, preghiera. Mentre l’altra mattina stavo scrivendo gli appunti per questo articolo, ho aperto Facebook e ho trovato un 'post' di una giovanissima donna che conosco da quando era bambina, presso l’Oratorio dove per anni ho collaborato.
Racconta con passione un’esperienza di lotta a rischio vita con il Covid vissuta qualche mese fa. Il testo è forte, mozza il fiato come l’affanno, i singulti e le corse dei familiari per trovare l’ossigeno. Emerge la voglia matta di riprendersi la vita in mano, ma fa anche di far riflettere tutti quelli – soprattutto i coetanei – che la vita rischiano di sciuparla, che non sanno sopportare un minimo di rinuncia e continuano imperterriti con comportamenti davvero superficiali, pericolosi per sé, ma soprattutto incuranti delle conseguenze sugli altri, compresi familiari e amici più fragili. Sapete come si apre quel racconto? Con una frase lapidaria, per altro riportata anche in greco: «Le sofferenze sono insegnamenti».
Questa giovane donna dice a tutti noi, soprattutto adulti, almeno due cose riguardanti la verità della vita. La prima è che dalla sofferenza si può imparare, uscendone migliorati in tutti i sensi. Ciascuno di noi, almeno qualche volta, questo lo ha sperimentato direttamente o lo ha potuto veder accadere, con ammirazione e gratitudine. La seconda cosa è che i giovani danno il meglio di sé, se si offre loro un’opportunità e non li si inganna con l’effimero, con bugie e promesse di scansare il soffrire perché inutile e da rimuovere più della morte stessa.
Ma soprattutto, quando li si aiuta a scorgere il significato segreto di ogni dolore, i giovani scoprono che l’amore vero è sempre accompagnato da sofferenza e che se non si impara ad accettare le sofferenze che la vita riserva, non si apprenderà mai l’arte di amare. Perché amare non è solo «voce del verbo morire» (don Tonino Bello); amare è anche voce del verbo «soffrire». Ad appena ventiquattro ore da questi pensieri e dalla lettura del post della giovane Rita, un suo coetaneo, Francesco, prete, mi scrive così: «Sono bastati pochi mesi di sacerdozio e un po’ di confessioni perché io vedessi capovolta la mia idea della sofferenza.
Quanto è importante la sofferenza! Ho l’impressione che il mondo, la società in cui viviamo, sia continuamente pungolato da una tentazione: pensare che la felicità sia il benessere e che il benessere sia l’assenza di sofferenze. Dopo un po’ ho iniziato a chiedere alla gente 'Per te, chi è una persona felice?'. Quasi sempre la risposta è 'chi non soffre'. Ma forse qui c’è un inganno. Chi lo ha detto che il più felice è quello che soffre meno? La mia fede crede che l’uomo più felice della storia sia l’uomo che ha sofferto di più al mondo. Le mie Scritture dicono che il più bello tra i figli dell’uomo è quello che, talmente fu percosso e maltrattato, non sembrava più un uomo, era più simile a un verme schiacciato.
La sofferenza è utile, è importante, è un regalo che Dio fa, è il luogo privilegiato in cui poter incontrare Dio... È Dio che passa ogni volta che soffriamo, è Dio che si manifesta ogni volta che un suo figlio è nel dolore, nella sofferenza, nell’angoscia. Ed è il Dio che patisce per noi per amore e con amore, lasciandoci un esempio perché ne seguiamo le orme che i nostri occhi contemplano nel mistero della Santa Settimana». Da adulto e da prete, in fondo al cammino della Pasqua 2021, a questi e a tanti altri giovani di cui essi sono il 'segno' luminoso, posso solo dire grazie: mi avete dato un grande aiuto su come vivere ancora una volta questo tempo di passione e d’amore.
Sacerdote e psicologo