Lavoro-dipendenti a parte, chi non vorrebbe un giorno in più a settimana libero e retribuito? A chi non piacerebbe poter concentrare la propria attività dipendente in 4 giorni e averne 3 a disposizione? E così l’idea di introdurre la settimana lavorativa corta sta prendendo piede in diversi Paesi, da quelli lontani come Nuova Zelanda o Islanda, ai nostri vicini Belgio, Germania, Spagna e Regno Unito, dove nei giorni scorsi è stato stilato un primo bilancio – positivo – dell’esperimento di orario ridotto e concentrato. Da noi Intesa San Paolo ha introdotto da gennaio la possibilità per alcuni dipendenti di lavorare 9 ore per 4 giorni a parità di stipendio, i metalmeccanici della Fim-Cisl insistono per aprire confronti nelle imprese e il segretario generale Maurizio Landini vuole porre il tema al centro del prossimo congresso nazionale della Cgil. Insomma, sul tavolo torna prepotente l’idea di liberare tempo per la persona, di rimetterla anche così al centro.
Ed è certamente cosa buona e giusta. A patto di non far diventare la settimana di 4 giorni l’ennesimo totem, trasformandola da possibile strumento utile a feticcio rivoluzionario cui sacrificare tutte le altre opzioni ed esigenze. Oggi, infatti, le persone avvertono con maggiore intensità che la loro realizzazione non si esaurisce nell’attività lavorativa, anche se essa resta un ambito fondamentale. Il peso attribuito alle relazioni sociali è cresciuto e, dopo la pandemia, sono tornati in risalto da un lato l’esigenza di passare più tempo in famiglia, con le necessità di cura connesse e, dall’altro, la percezione che c’è tutta una vita da vivere al di là del lavoro. Ancora, la sempre più rapida evoluzione tecnologica diffonde una generalizzata ansia da obsolescenza e stimola la ricerca di alternative e di occasioni di formazione.
L’opportunità di una riduzione di orario, di una riorganizzazione che non si limiti a tagliare una mezzora al giorno ma lasci libero un giorno intero da dedicare ad altro, dunque, può rispondere positivamente a una molteplicità di esigenze per i lavoratori: dallo studio alla cura dei genitori anziani e/o dei figli, dall’impegno sociale a relazioni meno virtuali e più reali.
Occorre però essere coscienti anche delle difficoltà a generalizzare un simile modello organizzativo e dei possibili risvolti negativi. Una riduzione d’orario del 20% a parità di salario, infatti, rappresenta un onere che, in questa congiuntura, possono permettersi solo aziende in cui esista un profitto consistente da redistribuire (giustamente) verso i lavoratori. Oppure in cui si possa prevedere un incremento di produttività, anche con una più estesa turnazione, tale da “coprire” i costi. Nel nostro Paese, per molteplici ragioni in parte esterne alle imprese, la produttività è stagnante ormai da 20 anni e pensare che basti il miglioramento delle condizioni di lavoro per invertire la tendenza e “ripagare” i maggiori costi sarebbe una scommessa azzardata. Inoltre, la riduzione d’orario a parità di stipendio rischia di annullare buona parte o tutti i margini per l’aumento dei salari di cui oggi la grandissima parte dei lavoratori ha estrema necessità e che i sindacati dovrebbero avere (assieme alla lotta alla precarietà) come priorità assoluta.
Ancora, la riduzione d’orario – secondo il vecchio slogan caro alla Cisl « Lavorare meno, lavorare tutti» – rischia di non portare dappertutto i frutti sperati in termini di maggiore occupazione, ma di essere utilizzato solo in chiave difensiva da quelle imprese in grado di capitalizzare gli incrementi di produttività garantiti dalle nuove tecnologie. Infine, c’è la possibilità che molti lavoratori impieghino il giorno o il tempo “liberato” per impegnarsi in altre occupazioni – dalle consulenze alle attività nel commercio e nell’artigianato – per poter guadagnare di più, magari anche in “nero”, annullando così i benefici immaginati.
Di questi limiti, delle difficoltà e della necessaria varietà delle applicazioni nei diversi ambiti occorre essere avvertiti. Non per riporre in un cassetto l’idea della riduzione del tempo di lavoro per l’uomo e la donna, che è storicamente ineluttabile. Ma per non illudersi che basti uno slogan, un modellino uguale per tutti o i risultati positivi in 61 aziende inglesi, per rendere immediato e generalizzato un processo in grado di maturare, per paradosso, solo su tempi più lunghi e in tanti modi diversi. E che per questo può crescere solo “dal basso”, da migliaia di sperimentazioni e contrattazioni a livello aziendale. «Che cento fiori sboccino, che cento scuole di pensiero rivaleggino », si potrebbe dire con Mao. Che, se non altro, di rivoluzioni se ne intendeva.