Poco meno di sessant’anni fa usciva “L’uomo a una dimensione”, il più noto tra i testi di Herbert Marcuse, uno scritto che è stato tra quelli di riferimento dei movimenti di contestazione sociale della “nuova sinistra” che attraversarono l’Europa occidentale e l’America nell’ultimo terzo del Novecento, segnando culturalmente e politicamente l’epoca del ’68. In esso il filosofo francofortese denuncia come il sistema economico e sociale dominante induca alla standardizzazione e all’omologazione della persona umana, la cui esistenza viene così impoverita, ridotta a una sola dimensione, quella dettata dai teoremi e dalla prassi di un sistema totalizzate e, più o meno apertamente, totalitario.
All’interno di quest’unica dimensione vengono così incanalati e strozzati anche i bisogni, le domande, i desideri e le aspirazioni umane. La dimensione è quella della produzione e del consumo. L’unica libertà concessa, in modo fittizio («tolleranza repressiva», la chiama Marcuse) è quella di sceglie tra i diversi beni materiali che gli vengono messi a disposizione per soddisfare i bisogni veri o indotti. La libertà che gli resta è quella di un «fantoccio», un «burattino». L’esito è una «cosificazione» dell’uomo: «Le decisioni relative alle questioni di vita o di morte, di sicurezza personale o nazionale – scrive il filosofo tedesco –, sono prese in luoghi sui quali gli individui non hanno alcun controllo». Essi divengono così degli «schiavi sublimati, pur sempre schiavi poiché la schiavitù è determinata non dall’obbedienza, bensì dalla riduzione dell’uomo allo stato di cosa». Un’analisi spietata e rigettata da molti, ma non priva di provocazioni a pensare il “rischio antropologico” serio di quegli anni, e di quelli a venire.
Mezzo secolo dopo, ad attentare alla integrità dell’umano sono anche le nuove tecnologie, quelle che si affacciano e già in parte entrano nel campo antropologico della corporeità, dell’intelligenza, della conoscenza, delle decisioni e delle relazioni di ognuno di noi. Sulla necessità di «vigilare sulla velocità delle trasformazioni [da esse indotte], sull’interazione tra i cambiamenti e sulla possibilità di garantire un equilibrio complessivo» è intervenuto ieri papa Francesco nel discorso ai membri della Pontificia Accademia per la Vita. Il richiamo non è a ricusare il contributo della tecnologia allo sviluppo di migliori condizioni di vita individuale, comunitaria e globale (esse rispondono «alla stessa vocazione del lavoro umano», mentre – come ricordava già Benedetto XVI nella Caritas in veritate, al n. 69 – «nella tecnica, vista come opera del proprio genio, l’uomo riconosce sé stesso e realizza la propria umanità») ma a raccogliere le sfide che essa lancia all’autocoscienza e al bene della persona. Sfide che urgono «una seria riflessione sul valore stesso dell’uomo». La nostra esperienza – non solo quella di frontiera, d’avanguardia, ma sempre più anche quella quotidiana – ci testimonia che nel vissuto del nostro corpo l’artificiale non può innocentemente scalzare il naturale, nella conoscenza l’algoritmo non è abilitato a sostituire candidamente la ragione umana, né la tecnologia «può soppiantare il contatto umano». «Il virtuale – ha detto ancora Francesco – non può sostituire il reale e nemmeno i “social” l’ambito sociale».
Come accaduto negli scorsi decenni per le intrusioni pervasive delle biotecnologie riproduttive, genetiche e cellulari applicate all’uomo, anche per le tecnologie dell’intelligenza artificiale e dei mondi virtuali il primo approccio è stato quello etico. Un tentativo di limitare i danni di un abuso attraverso l’orientamento della deliberazione verso il bene che esse possono offrire e una messa in guardia contro il male che da esse può derivare per la dignità della persona e i diritti di tutti, in particolare dei soggetti più vulnerabili e poveri di mezzi e di conoscenza. Per questo occorre aprire gli occhi, formare, informare e resistere alle derive del disumano.
Il passo ulteriore che oggi appare urgente è, dunque, quello antropologico, il solo capace di denunciare con la forza del concetto e della referenza alla persona che «un approccio sbagliato in questo campo finisce in realtà non con “aumentare” ma con il “comprimere” l’uomo». Una “compressione” in una sola dimensione che impoverisce, non arricchisce l’integrale e l’integrante che è proprio dell’umano in quanto icona trinitaria di Dio e unico vivente che porta in sé la coscienza dell’universo. Un pensiero “forte” è quello di cui abbiamo bisogno. Quello “debole” non ci aiuterà, come non ha aiutato nel secolo scorso ad affrontare le sfide sociali e politiche – tuttora irrisolte e ancor più accentuate – individuate e denunciate anche da Marcuse.