L’immaginario contemporaneo è abitato da storie di persone che muoiono senza accorgersene e che rimangono sospese in uno spazio di mezzo, un po’ mescolandosi ai vivi e un po’ replicandone le vicende. A volte riescono a interferire, più spesso si limitano al ruolo di spettatori esterrefatti. È un dispositivo ormai consolidato, che ha i suoi riferimenti principali nel film Il sesto senso di M. Night Shyamalan, arrivato nelle sale nel 1999, e nella serie televisiva Lost, la cui prima stagione risale al 2004. Tutto il primo quarto del XXI secolo, insomma, si pone sotto il segno di una ricorrente fantasia purgatoriale, che negli ultimi anni si contamina sempre più spesso con le suggestioni provenienti dalla fisica quantistica.
Del resto, la congettura classica sullo stato di sovrapposizione presuppone proprio l’impossibilità di distinguere tra vita e morte. In definitiva, che dentro la scatola ipotizzata da Schrödinger ci finisca un gatto oppure un’intera famiglia (come accade nella serie tv Dark Matter) è davvero una questione di dettaglio. Fantasia purgatoriale, si diceva. L’aggettivo non è speso a caso, e non solo perché nell’intricata trama di Lost appariva l’opera del fantomatico scrittore Gary Troup, trasparente anagramma dell’inglese Purgatory. Senza l’idea di Purgatorio, in realtà, Shakespeare non avrebbe scritto Amleto né Dante la Commedia, senza Purgatorio la coreografia commerciale di Halloween sarebbe del tutto differente, senza Purgatorio i fantasmi non si nasconderebbero sotto un lenzuolo, perché quel lenzuolo non è altro che il sudario adoperato nelle sepolture medievali, l’unico abito che le anime in pena possano indossare quando bussano nottetempo alla porta dei loro cari per implorare una preghiera di suffragio.
Anche in questi giorni di inizio novembre, il Purgatorio è dappertutto, ma del Purgatorio non si parla. Come in generale non si parla dei Novissimi (morte e giudizio, Inferno e Paradiso), che delle ricorrenze autunnali costituiscono la vera materia. Per molti aspetti, è la dimostrazione di quanto la cultura contemporanea, pur profondamente innervata di istanze teologiche, si intestardisca a ignorare la generosa complessità del pensare teologicamente. Un atteggiamento di pericolosa e insieme disarmante ingenuità, che può essere riscontrato negli ambiti più diversi, dallo sviluppo tecnologico all’esperienza degli affetti, ma che dimostra tutti i suoi limiti quando si giunge «al punto, e cioè in punto di morte», come con inarrivabile concisione secentesca si esprimeva padre Daniello Bartoli in un suo celebre trattatello.
Sempre più spesso si ha l’impressione che l’esempio scolastico del sillogismo – gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale – sia recepito in forma travisata: Socrate è mortale, d’accordo, ma nessuno di noi è Socrate, quindi non c’è di che preoccuparsi. La felice contiguità tra la celebrazione dei santi e la commemorazione dei defunti racconta un’altra storia, più improntata al realismo e, di conseguenza, aperta alla speranza. Sia pure in maniera contraddittoria e imperfetta, è la stessa storia che viene oggi rielaborata in tanta narrativa popolare.
A volerla ridurre nei suoi elementi essenziali, l’avventura del protagonista del Sesto senso, dei naufraghi di Lost e dei loro innumerevoli epigoni si riduce a questo: la salvezza è quello che accade nel momento in cui la morte viene accolta come destino e non più subìta come inganno. In termini cristiani, quando si comprende che la comune vocazione alla santità ha la meglio sulla morte e la priva del suo «pungiglione», come lo definisce san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi. Non è con la morte che si diventa santi, ma è vivendo la santità che ci si prepara a morire. Per questo, in una delle più belle poesie purgatoriali mai composte (Animula, 1929), il premio Nobel T.S. Eliot implora la Vergine di pregare «per noi ora e nell’ora della nostra nascita». Nulla di ciò che inizia può finire, un filo tenace lega la memoria di ciò che è già stato alla profezia di ciò che ancora non è. Noi – principianti della santità – siamo gli equilibristi che su quel filo camminano.