Il 22 maggio la Corte Costituzionale discuterà il tema della fecondazione artificiale (Pma) eterologa. Nel 2010 tre giudici, di Catania, di Firenze e di Milano, hanno sollevato un dubbio di legittimità costituzionale sul divieto di utilizzare gameti estranei alla coppia, stabilito nell’art. 4 della legge 40 approvata dal Parlamento il 19 febbraio 2004 e successivamente difesa dal popolo italiano nel referendum del 2005. Le tre ordinanze si fondano pressoché esclusivamente su una sentenza di primo grado della Corte Europea dei diritti dell’uomo che l’11 marzo 2010 aveva condannato l’Austria perché la sua legge vieta la Pma eterologa se è "donato" l’ovocita, ma non se è "donato" lo sperma. Ma successivamente, il 13 novembre 2011, la Grande Camera della medesima Corte – alla quale l’Austria affiancata dall’Italia aveva fatto ricorso – ha capovolto il giudizio e ha stabilito che l’Austria non ha violato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Così è venuto a cadere l’argomento principale su cui i tre giudici italiani avevano fondato il loro dubbio di costituzionalità. Ma vi è di più. La ragione per cui la Grande Camera di Strasburgo ha promosso la legge austriaca è il principio dell’«ampio margine di apprezzamento» che si deve riconoscere agli Stati nelle materie eticamente sensibili. In altri termini: uno Stato è libero di vietare o permettere la fecondazione eterologa senza che l’una o l’altra soluzione violi i diritti dell’uomo. Così ha detto la Corte di Strasburgo. Questa motivazione impone il rigetto anche degli altri argomenti proposti in subordine nelle ordinanze di Catania, Firenze e Milano: la violazione del preteso diritto ad avere un figlio, dell’eguaglianza, del diritto alla autodeterminazione e alla salute (artt. 2 - 3 - 31 - 32 Cost.). Ma vi è ancora di più. Al n. 74 della decisione della Prima Camera si legge che «gli Stati non sono affatto obbligati a legiferare in materia di procreazione artificiale, né a consentire la sua utilizzazione». La condanna dell’Austria, in quella sede, è dedotta dal principio di «ragionevolezza interna»: se gli Stati permettono la Pma devono regolarla in modo ragionevole ed è irragionevole - dice la Prima Camera - permettere la fecondazione eterologa con sperma maschile estraneo alla coppia e non permetterla se viene da un ovocita femminile. Orbene, dall’insieme delle due decisioni risulta che, non solo non vi è discriminazione nel proibire l’eterologa, ma anche che non esiste un diritto al figlio, né un diritto alla salute, la cui soddisfazione esigerebbe la legittimità della Pma. Se infatti la Pma eterologa fosse una terapia e se esistesse un diritto al figlio, la Pma dovrebbe essere sempre legalizzata ed incoraggiata. Quindi, anche dalla decisione della Prima Camera deriva un argomento che contrasta i dubbi di costituzionalità dei giudici di merito. Ma torniamo alla decisione della Grande Camera. Se non può essere bollata come irragionevole la distinzione tra eterologa per parte maschile ed eterologa per parte femminile, a maggior ragione è giustificato il divieto di Pma eterologa in ogni caso, perché tale posizione tiene conto univocamente dei diritti e interessi del figlio. L’art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo dispone che nel bilanciamento tra il bene del minore e quello degli adulti bisogna preferire quello del minore. La dichiarazione del 1959 sui diritti del bambino stabilisce che «al fanciullo gli Stati devono dare il meglio di se stessi». Perciò è del tutto ragionevole di fronte alla Pma eterologa chiedersi qual è il meglio per il figlio. Qui parliamo del già nato, non dell’embrione. È il meglio per lui essere abbandonato dai genitori biologici? È il meglio per lui non conoscere le proprie origini? È il meglio per lui rischiare, più del figlio naturale, di essere rifiutato di fatto dal genitore che non è padre o madre vero? È meglio per lui non avere rapporti di parentela vera con i nonni e i fratelli che potrebbero anche sentirsi imposta la relazione con lui dalla coppia che ha chiesto la Pma? Non vi è nella Pma eterologa un sacrificio dei diritti del figlio alla sua identità e alla conoscenza delle sue origini?Naturalmente in linea di fatto si possono dare risposte diverse. In ogni caso, non è una risposta l’istituto dell’adozione di minori il cui scopo è dare una famiglia ai bambini che non ce l’hanno, non di dare, come nella Pma, figli a chi non ce li ha. Ma non spetta al Giudice Costituzionale stabilire la verità dei fatti. Spetta invece al legislatore ordinario valutare il pro e il contro della regola da stabilire. Ed egli, nel dubbio, deve seguire un principio di cautela. C’è, dunque, una doverosa discrezionalità del legislatore in cui il giudice costituzionale non può entrare. Se la Corte Europea riconosce un ampio margine di apprezzamento agli Stati in materia di Pma, a maggior ragione la Corte Costituzionale deve riconoscere uno spazio di discrezionalità del legislatore ordinario, un potere di valutazione politica che deve essere rispettato.
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