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Litigare con la realtà non è mai una buona idea. Perché la realtà ha la tendenza a impuntarsi e a restare così come deve essere, a prescindere da come vorremmo farla diventare. E rimane indifferente ai marchingegni teorici e semantici con i quali cerchiamo di costringerla negli schemi che abbiamo costruito.
Non c’è stratagemma che basti: potremo cambiare l’apparenza, ma la sostanza della realtà è sempre lì, ad aspettare pazientemente (non sempre, per la verità) che ci accorgiamo della sua esistenza inoppugnabile. In tempi di narrazione pubblica esplosa in mille diversi punti di vista, i fatti “così come sono” sembrano diventati un fattore trascurabile. Nel grande suk dei media digitali c’è chi grida, chi blandisce, chi tenta il gioco delle tre carte, chi svende la merce in offerta speciale. Al mercato delle idee, delle notizie e della politica conta sempre più saper offrire una versione della realtà verosimile, capace di incontrare a metà strada pregiudizi, convinzioni scarsamente argomentate e mezze verità preesistenti.
Strumento principe di questa impresa di alterazione psicologica e culturale è il linguaggio: è già noto che il primo requisito di una efficiente ricostruzione premeditata della realtà, con l’obiettivo di farla sparire, è cambiare il significato delle parole adottate per descriverla. Una notizia, una legge, una teoria dopo l’altra, delle parole resta il guscio, apparentemente sempre uguale, ma dentro sono stati sostituiti gli organi interni, uno alla volta. Fino a convincerci che quella stessa parola comunemente usata per definire un concetto condiviso ormai rimanda a uno tutto diverso, se non opposto, o a tanti differenti, a ciascuno la scelta del suo preferito.
L’aveva intuito genialmente George Orwell, che nell’affresco distopico di 1984 aveva posto come architrave del “nuovo mondo” la neolingua e la certosina riscrittura dei fatti, nella convinzione che non l’evidenza di una nuova realtà avrebbe persuaso la gente delle magnifiche sorti dell’ideologia dominante ma una sapiente e tenace manipolazione del dizionario.
Prendete la mamma. La prima parola che impariamo, probabilmente la più usata al mondo, di certo la più cara. In cinque lettere c’è un universo emotivo e simbolico, un’intera antropologia, la nostra incancellabile certezza di appartenere a una storia e di essere qualcuno, l’anticorpo invincibile contro il nulla e il non senso. Per questo “mamma” è assai più di una parola: è un muro portante, un cuore che batte, una terra su cui camminare e un cielo al quale tendere. Il bersaglio più grosso che c’è. Sarebbe utile vigilare (o quantomeno osservare) con molta attenzione le manovre che si compiono attorno al suo significato, perché nessun termine-concetto ci è più necessario per capire chi siamo, adesso, qui, non in astratto. Non è dunque irrilevante che si seguiti insistentemente a spiegarci che la mamma non è unica, come invece la realtà ci ripete con ostinazione (non può fare diversamente), ma doppia.
Di “due mamme” per un solo bambino – intendendo una coppia di donne e il figlio di una delle due – si è parlato una volta ancora nei giorni scorsi dopo la sentenza con la quale il Tribunale di Padova ha dichiarato inammissibili i ricorsi della Procura per togliere la “seconda mamma” dagli atti di nascita di 37 piccoli già registrati con la duplice maternità all’anagrafe comunale: cioè, al registro più ufficiale che c’è, quello col quale lo Stato certifica la realtà, il luogo per eccellenza nel quale è inammissibile un’alterazione dei fatti. Se vado a rinnovare la carta d’identità il Comune non può che prendere atto che sono io e non un altro, che ho una certa data di nascita, sono maschio o femmina, abito in una determinata via, e a nulla possono servire le mie ipotetiche proteste che non è così. Ma con la mamma ora no, sembrano potersi rimescolare le carte a richiesta, e un potere dello Stato come la giustizia (non tutta, peraltro: anche qui le versioni sono molteplici) arriva a dire che c’è tutto il diritto ad autocertificare un fatto diverso rispetto a quello che è espresso dalla realtà.
L’obiezione è nota: una bambina o un bambino ha tutto il diritto di chiamare “mamma” entrambe le persone della coppia di donne con cui cresce (o “papà” due uomini: ma il caso qui è ancora più complicato, e la sparizione del reale decisamente più acrobatica visto che da “due papà” un figlio non nascerà mai: altra irruzione screanzata della realtà). Obiezione accolta, ma ancora una volta non è una questione di nomi: il bambino non tarderà a chiedersi di chi è figlio, e a capire chi è la mamma. Inutile girarci attorno, i bimbi ci insegnano a non mentire sulla verità dei fatti: la mamma ha un nome, è una sola, non due. Questa mistificazione di significati è assai estesa, e tocca altre parole nevralgiche della nostra vita, in altre operazioni di riscrittura delle evidenze.
È il caso del concetto di “diritto”, termine ora applicato alla soppressione di quella che ogni manuale di medicina indica come vita individuale, e che quindi è assai più una sopraffazione del forte sull’indifeso che una forma di tutela legale della persona umana. E che dire della “dignità”, concetto agganciato come pochi altri alla nostra natura essendo la certificazione dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e adesso invece applicato – ad esempio – all’eutanasia nelle leggi sulla “morte degna” in Spagna (già operativa) e in Francia (in itinere), a sancire viceversa una differenza in base alle condizioni personali, tra sani e malati, sofferenti che “ce la fanno” e altri sopraffatti dal dolore.
Attenzione, dunque: le parole separate dalla realtà ci portano dritti alla neolingua. Ma quello era un mondo dentro il pugno spietato del Grande Fratello.