A volte per capire il senso di una storia, per andare alle origini di una scelta, bisogna partire dalla fine. Nel nostro caso sono tre parole appena, che però da sole bastano a dare un senso al tutto: Signore, misericordia, perdonami. Poco più di un sospiro a spiegare cosa vuol dire avere fede. Significa credere in una Persona, che ha come stile la misericordia, a cui chiedere, pieni di fiducia, di essere perdonati. Tutti avranno riconosciuto la conclusione dell’Atto di dolore, la preghiera recitata al termine della Confessione, prima di ricevere l’assoluzione. Il Papa ne parla all’interno del discorso consegnato ai partecipanti al corso sul foro interno organizzato dalla Penitenzieria apostolica. A leggerlo sembra di passare una spugna umida su un vetro impolverato, in modo da vedere meglio fuori, come siamo agli occhi di chi ci conosce davvero. È recuperare la dimensione del proprio essere spirituale, si tratta di riandare al noi stessi bambini quando abbiamo imparato quelle frasi in apparenza banali e che invece sono alla base della relazione personale con Dio.
Perché la fede ha radice in un rapporto d’amore. Non a caso la preghiera recita: «Ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni altra cosa». Cioè, ti voglio così bene che sto male al solo pensiero di offenderti. Come in un rapporto coniugale, come l’anello al dito con cui porti nel mondo la fedeltà dell’altra persona e lei fa lo stesso con te. Anzi è qualcosa di più, i mistici, i santi insegnano che esiste un livello ancora superiore d’amore, perfetto, incontaminato, che dà l’esempio al dialogo, all’incontro con tutto il resto. Così che chi ama Dio, ama il fratello e il creato, e cerca sempre il bene e la giustizia. Un’alternativa non esiste: non è possibile voler bene al Signore ma detestare la gente, rifiutare ogni contatto con lei. Anzi chiudersi nella propria autoreferenzialità, bastare a sé stessi rappresenta l’essenza del peccato, significa lasciare il Signore fuori dalla nostra porta come un estraneo che ci fa un po’ paura.
Si tratta allora di allenarsi all’accoglienza. Del Signore e dell’altro, dove l’esercizio al limite dell’umano è proprio perdonare. Una “prova” che in alcuni casi può avvenire solo con l’aiuto del cielo e si resta meravigliati da chi di fronte all’omicidio di un figlio non cerca vendetta ma, pur con il cuore senza respiro, sa guardare avanti. Il sacramento della riconciliazione in questo è scuola, ci insegna che agli occhi di Dio, se il pentimento è vero, ogni peccato può essere perdonato. A patto che siamo disposti a sanarne gli effetti con la penitenza, pagandone le conseguenze, disinfettando le ferite in attesa che cicatrizzino. E, ancora di più, accostarsi al confessionale comporta la consapevolezza che Dio, per dirla con il santo curato d’Ars, «ci perdona anche se sa che peccheremo di nuovo». Perché è nella sua natura di Padre, perché pensa all’uomo prima di tutto, perché il suo nome è misericordia. E sperimentarlo fa crescere anche chi la riceve, purifica il cuore di chi sa di averlo sporco, come acqua tiepida che non bagna ma cura. «La misericordia - scrive Shakespeare nel Mercante di Venezia - cade dal cielo sulla terra in basso come la pioggia gentile. È due volte benedetta, benedice colui che la esercita e colui che la riceve».