Si intitola alla luce e luce fa, lei medesima, l’enciclica, su tante cose che ci fanno tremare. Fa luce – con l’andamento piano dello stile chiaro e coraggioso di Benedetto e con la profoda empatia di Francesco per noi, uomini e donne di oggi – su tante questioni che più o meno bene espresse sono la tensione di chi è vivo e vegeto in questo tempo che ci è dato. Cosa vuol dire avere fede? E davvero chi dice di non averla è senza Dio? E credere è una cosa che spegne la ragione o è una cosa da uomini che cercano, che usano pienamente la ragione? E cosa c’entra amare con conoscere? Conoscere Gesù è possibile? E guardarlo? Star dinanzi al suo volto?
Chi vive con intensità il tempo presente nella Chiesa e nel mondo di oggi sa bene che queste faccende sono sotto la superficie e a volte in cima a grandi questioni che non solo agitano i dibattiti culturali pubblici (non sarà un caso che i filosofi di ogni parte del mondo si stanno interrogando sul rapporto tra l’amore e la conoscenza…). Siamo al termine di un’epoca che ha sacrificato molto, troppo, a una concezione razionalistica arida della conoscenza, fino a trovarsi con grandi strumenti offerti da scienze e tecnologia, ma senza più chiaro lo scopo per cui usarli. E siamo in una epoca in cui la vita degli uomini non sa più se si trova in un cammino o in un labirinto del tempo, in un circolo senza senso.
Non è un libro contro la modernità né contro l’attualità, la <+corsivo>Lumen fidei<+tondo>. Anzi, è una lettura profonda dell’attuale condizione umana, molto di più di quella di certi acclamati maestri del pensiero attuale. Ma il Papa, appunto, legge più in profondo l’epoca perché non ha (solo) lo sguardo da intellettuale. Fa suo lo sguardo di Cristo che ama l’uomo, senza limiti, perciò lo comprende meglio di tutti. L’enciclica va al cuore del problema di cosa sia dirsi cristiani, dunque avere fede.
Significativamente, in una enciclica sulla fede non si parla di atei, ma di coloro che si affidano a idoli (e noi tutti possiamo farlo in ogni momento) e di coloro che pur non ammettendo l’esistenza di Dio ne provano il richiamo e vivono nella luce della sua ipotesi. La traiettoria che il Papa ci offre tocca le obiezioni e i luoghi comuni, li smonta. Specie quello per cui la luce della fede consista in una specie di "produzione" della persona, mentre è il frutto di un «guardare e toccare» la luce che è il Volto, la carne, la persona di Cristo.
È una enciclica luce, una enciclica paziente, una enciclica "arma". Nel senso che offre uno strumento di alta precisione per lettura della esperienza cristiana nel presente. Fino a illustrare le conseguenze (introdotte da una significativa citazione del poeta Eliot e dei suoi «Cori da la Rocca») oggi visibili in una cultura e in una società come quelle delle terre vivificate dal cristianesimo, dove a causa di imposizioni dall’alto e di movimenti culturali si vorrebbe eliminare una radice e una pianta (quella cristiana appunto) sperando che rimangano intatti i buoni frutti di civiltà che essa ha generato. Non c’è da stupirsi se in una terra che rinnega il cristianesimo – ovvero l’annuncio di un Dio che si fa uomo, alzando l’uomo, la donna, ogni singola vita umana alla massima dignità – si assista nonostante tutti i proclami su diritti e valori a una progressiva cancellazione reale di tale dignità?
È una enciclica sfida, specie per i cristiani, e per coloro che desiderano una Chiesa che compie il suo destino non come agenzia morale o sociale, innanzitutto, ma come annunciatrice del Volto che illumina la magnifica e dura prova della vita. In questa enciclica passata di mano da un Papa all’altro e ora nelle nostre, si può trovare il chiarimento, il gusto, l’avventuroso senso di questo strano mistero d’essere peccatori e limitati come tutti, ma lieti d’essere «quelli di Cristo».