Chissà se qualcuno ha tentato di chiedere a Donald J. Trump se abbia mai sentito parlare dell’Equilibrio di Nash. E senza sentirsi rispondere che forse è quello che sul palco di Woodstock cinquant’anni fa Graham Nash trovò suonando con Crosby, Stills e Young. L’Equilibrio teorizzato dal premio Nobel nel 1994, reso famoso dal film “ A beautiful mind”, si raggiunge invece quando, in una situazione con più attori in gioco, nessuno riesce a migliorare in maniera autonoma la propria condizione. E per cambiare, occorre agire insieme.
Una prova la si ha analizzando più di un biennio di politica estera del miliardario catapultato alla Casa Bianca. Per oltre un anno, il presidente Trump ha distrutto tutto ciò che ha potuto del lavoro del suo predecessore Barack Obama. Poi ha cominciato ad agire in una maniera che ancora pochi riescono a capire. Agendo e smentendo se stesso e chi lo circonda nel giro anche di poche ore. L’ultima azione, solo in ordine di tempo, è quella che mette fine alle esenzioni concesse ad alcuni Paesi – tra cui l’Italia – all’embargo delle importazioni di greggio dall’Iran.
L’effetto, questo scientemente calcolato e non affidato alla “teoria dei giochi”, è stato e sarà dirompente. Il prezzo del petrolio è tornato a galoppare. Come non succedeva da tempo. Imbarazzante l’assicurazione che le tariffe non sarebbero cresciute grazie all’aumento di produzione da parte di alcuni Paesi: uno fra tutti, l’amica Arabia Saudita. Lo scopo manifesto era ed è strozzare l’economia di Teheran. Che è il nemico numero uno di Riad e che i sauditi combattono, per procura, nello Yemen. Ma ormai da tempo la realtà ci ha abituato a riformulare parecchie teorie, prima fra tutte quella della domanda e dell’offerta. Il prezzo del barile non lo altera più la guerra, ma una geopolitica diversa dal passato. Il prezzo è calato al culmine della guerra in Siria e nello Yemen. In questi giorni non è cresciuto con i fuochi (fatui) libici.
L’azione sull’Iran ha riportato, invece, il prezzo sopra i 70 dollari. E quel livello di remunerazione dei produttori è destinato a crescere. Insomma, si è realizzato ciò che riunioni dell’Opec e insolite alleanze, che vedevano coinvolta anche la Russia, non erano riuscite a fare. A questo punto, però, una riflessione va concentrata sugli effetti collaterali della destabilizzazione, le cui conseguenze si sentiranno a lungo. Partendo dalla questione nucleare iraniana che tornerà ad aprirsi, passando per il grande piano per la pace in Medio Oriente che Trump continua a rinviare e che coinvolge l’altro arcinemico iraniano, cioè Israele. Il primo risultato, dopo quello dell’impennata dei prezzi, per essere spiegato ha bisogno che sia introdotta un’altra complicazione. Che potremmo chiamare il “dilemma della torre”.
Chi salvare, a malincuore, fra due nemici, se soltanto uno può essere gettato di sotto? Trump questo deve esserselo chiesto. Perché penalizzando l’Iran fa crescere il prezzo del petrolio e, quindi, puntella colui che in America Latina, cioè nel «cortile di casa » sembrava il suo “satana” numero uno da debellare: Nicolás Maduro. Il Venezuela è sprofondato progressivamente nella crisi con la discesa dei prezzi del greggio. Oggi Maduro, invece, festeggia. Così, dopo aver lasciato con il cerino in mano il presidente autoproclamato Guaidó – Trump lo ha riconosciuto per primo come presidente legittimo, quindi ha posto sul tavolo “ogni opzione” per affermare la sua autorità, e ora lo sta di fatto abbandonando – adesso sviluppa un gioco che fa totalmente il gioco del presidente-dittatore erede di Chávez. Il Dilemma della torre, insomma, in qualche modo Trump lo ha risolto. Ma ancora una volta a prezzo di un’incoerenza che tiene ferma l’identità dei “nemici” ma lascia gli alleati della “sua” America senza punti di riferimento.