Un bambino viene pesato durante la visita al centro di malnutrizione dell'ospedale pediatrico di Bangui
Kadidja ha imparato a fare il sapone. Così va al mercato, lo vende, mantiene se stessa e la mamma. Fa il sapone, va a scuola e ha un sogno. «Ho 18 anni e vengo da Bambari. Quando ne avevo 12 sono arrivati i soldati di Seleka. Ero con i miei. Uno di quegli uomini armati mi ha violentato e mio padre è stato ucciso. Io e la mamma siamo scappate e siamo venute a Kaga-Bandoro. Abbiamo cominciato a frequentare questo gruppo e così, grazie a Intersos, ho imparato un lavoro e ho potuto riprendere a studiare. Avevo smesso, allora, per via della guerra. Devo fare ancora cinque anni di superiori. Non ho figli, ma ho un sogno». Vuol fare l’università, per diventare avvocato oppure giornalista.
Kadidja Magadji, grandi occhi neri e mobilissimi, un sorriso che illumina il bel volto, sta ritrovando un futuro grazie all’Associazione 'Mach Allah', che significa 'Grazie a Dio'. Donne cristiane e musulmane insieme, «senza alcuna discriminazione», come sottolineano loro stesse, di tutte le età, accomunate solo dalla paura, dalle fughe, dallo stupro, spesso subìto all’età in cui le coetanee europee giocano con le bambole: cicatrici che la guerra ha lasciato loro nel corpo e nello spirito.
Sono sedute sotto un gazebo, che fa da luogo di ritrovo del progetto che l’Ong italiana porta avanti con loro: imparare un mestiere e superare i traumi subiti. Tornare, insomma, a una vita normale. Il gazebo si trova fra il campo sfollati e il nuovo mercato informale di Kaga-Bandoro, una cittadina a 300 km a nord di Bangui, in piena foresta della Repubblica Centrafricana.
Solo Kadidja ha un sogno. Ben preciso. Le altre non vanno oltre il desiderio di condurre, appunto, una vita normale (in un Paese, però, dove il termine 'normale' ha un’accezione del tutto particolare). Rispondono tutte allo stesso modo: la diciassettenne Sayidou, costretta a sposare un comandante di Seleka quando ne aveva 14; la ventiduenne Katerine, che a causa dei combattimenti non riusciva a trovare le medicine per curarsi; la cinquantenne Ladji, che porta addosso i segni delle ustioni perché hanno dato fuoco alla sua casa con lei dentro, e tutte le altre. La domanda che poniamo a ciascuna le lascia spiazzate: un sogno? Come mi vedo nel futuro? L’aspirazione è perpetuare l’oggi: una relativa sicurezza, la possibilità di guadagnarsi da vivere col lavoro che hanno imparato...
«Non è così strano », ci dirà qualche giorno dopo a Bangui Rosaria Bruno, di Ocha (l’Ufficio Affari Umanitari dell’Onu). «Qui la popolazione soffre a livelli esorbitanti. Siamo sotto il livello minimo della dignità umana. In una realtà come questa, anche i sogni vengono schiacciati».
In tutto il Centrafrica, grande quanto la Francia, vivono circa 5 milioni e mezzo di persone. Kaga-Bandoro si presume abbia 20mila abitanti (dati precisi non ce ne sono). Appena fuori città c’è solo foresta e posti di blocco delle bande armate lungo tutte le direttrici, tranne una perché è pattugliata dai caschi blu della Minusca, la missione di pace Onu per il Centrafrica. a percorriamo, diretti a Mbres, che dista soli 87 chilometri. Alberi maestosi, un muro verde fittissimo. Il nastro di terra rossa taglia la seconda foresta del mondo, quella del bacino del Congo.
Come in tanti Paesi africani, anche qui la capitale è una cosa, il resto del Paese un altro mondo, ma tutto su 'su scala bassa': questo Paese è a fondo classifica in tutti gli indici di sviluppo. In quello dell’Onu è al 188° posto su 188. E si vede, in tutti i momenti e sotto ogni punto di vista. Un esempio? Non ci sono strade degne di questo nome, ma qui ti chiedi se è una priorità, dato che non ci sono macchine: nei quattro giorni passati al Nord, nella provincia di Nana-Grebizi, non abbiamo visto una sola auto privata. Qualche camion, i blindati bianchi dei caschi blu, motociclette e bici.
Un altro esempio? Le agenzie dell’Onu e le Ong che operano nel Paese non riescono a trovare personale con la preparazione minima di cui hanno bisogno, per cui gran parte degli staff 'locali' in realtà provengono da Bangui. E ancora: se domani il personale umanitario (Onu e Ong) se ne andasse, in gran parte del Paese non vi sarebbe più presenza medicosanitaria. Si può continuare: tre bambini su cinque non vanno a scuola, solo il 6% arriva a finire quella secondaria. Più della metà degli insegnanti non sono qualificati.
È il secondo Paese al mondo «per mortalità infantile nel primo mese di vita (uno su 24 non sopravvive)», dice Paolo Marchi, viceresponsabile dell’Unicef in Centrafrica, «ed è anche il secondo Paese col più alto tasso di mortalità materno-infantile. Più di 43mila bambini, oggi, sono a rischio di malnutrizione acuta e severa. L’infanzia di questo Paese è in una situazione drammatica».
La mortalità infantile è a livelli record. Se il personale umanitario (Onu e Ong) se ne andasse, non vi sarebbe quasi più assistenza medica. Tre minori su cinque non vanno a scuola, solo il 6% finisce la secondaria Il suo territorio fa gola a tanti per le sue ingenti risorse naturali: è ricco di diamanti, oro e coltan, oltre al legname prezioso
Ma questi dati spaventosi hanno, tutto sommato, poco a che fare con la guerra civile, che dal dicembre 2012 attanaglia il Paese e che ora non è guerra guerreggiata solo per la presenza dei 12mila militari del contingente di pace. La povertà estrema del Centrafrica affonda le radici nel giogo post-coloniale francese, nelle traversie di questo Paese passato di mano da un dittatore a un golpe a un altro dittatore. Fino a quando si è 'materializzato' un problema inimmaginabile per questa popolazione: un conflitto a matrice religiosa, il gruppo politico-militare Seleka, a maggioranza musulmana, che conquista il potere e tenta di governare. Un impatto devastante, quello del conflitto scoppiato nel 2012. Non tanto sui livelli di povertà, che erano già drammatici, ma sull’abisso scavato fra i musulmani e tutti gli altri, che prima – e da sempre – convivevano pacificamente.
Kadidja, dopo l’incubo della violenza, vede un futuro da avvocato. Molte sue coetanee sono rinchiuse in una spirale di paura e di mancanza di prospettive
Lungo la pista sono tutti Antibalaka, ossia fanno parte delle cosiddette 'milizie di autodifesa' sorte in tante parti del Paese per combattere i Seleka islamici. In gran parte appartengono alla maggioranza cristiana (cattolica e protestante). Le due cittadine, invece, Mbres e Kaga-Bandoro, sono in mano alle milizie islamiche. Nessuno ha deposto le armi, e l’80% del territorio è controllato dai vari gruppi armati, che tra il 2012 e oggi si sono moltiplicati: allora erano due, il 6 febbraio scorso, quando è stato firmato l’ultimo (l’ottavo) accordo, al tavolo della trattativa erano 14. In questi sei anni sono continuati i saccheggi, le violenze, il taglieggiamento della popolazione, alcuni massacri. Nel novembre del 2018, ad Alindao, sono state uccise più di 110 persone, mentre il contingente mauritano della Minusca assisteva senza intervenire; nel maggio 2019, 46 civili sono stati sterminati a Paoua.
Sono ancora 630 mila gli sfollati interni. E più o meno altrettanti sono rifugiati fuori dai confini. Due terzi della popolazione ha bisogno di sostegno internazionale. Un intero popolo prostrato a livelli inimmaginabili, mentre sulla loro testa si fanno i giochi di potere e di interesse geopolitico. Il Centrafrica fa gola a tanti per le sue ingenti risorse naturali: come il vicino Congo è ricco di diamanti, oro e coltan, oltre al legname prezioso e alla bio-diversità della foresta. Le società cinesi si accaparrano le concessioni minerarie, il governo russo sostiene indifferentemente i gruppi armati come il governo. I vicini – Ciad, Sudan, Camerun e Repubblica democratica del Congo – appoggiano od ostacolano il processo di pace in base ai diversi, e spesso contrastanti, interessi politici e commerciali: un Gioco Grande, rispetto al quale i centrafricani sanno di essere impotenti.
La realtà che vivono può essere ben simboleggiata da Oscar e Samira, due dei 14 mila bambini soldato liberati dalla Minusca e dall’Unicef. Sono appena maggiorenni, oggi, e hanno passato anni in foresta, imbracciando un fucile. Ora sono a Kaga-Bandoro, uno di fianco all’altra, con davanti una macchina da cucire Singer a pedale. Fino a sei mesi fa potevano spararsi a vicenda perché Samira era nelle file di Seleka, Oscar fra gli Antibalaka. A entrambi la guerra ha spazzato via la famiglia. Sono stati affidati a Intersos, perché si reinseriscano nella vita civile. Loro, del Grande Gioco, sono del tutto inconsapevoli. Eppure, in qualche modo, sono emblema della speranza di questo Paese. Adesso imbracciano una Singer.