martedì 4 marzo 2025
Nel carcere napoletano due storie di riscatto e ripartenza attraverso percorsi di accompagnamento, nella riscoperta del proprio valore
Per i giovani detenuti di Nisida il lavoro diventa speranza nel presente
COMMENTA E CONDIVIDI

È una meraviglia il panorama che si spalanca davanti agli occhi percorrendo la strada che sale verso il carcere minorile di Nisida. Il mare di Napoli, l’azzurro del cielo, il volo teso dei gabbiani, la vegetazione fiorente e selvaggia. Un inno alla bellezza, quasi un assaggio di paradiso, anche se i ragazzi che vivono qui hanno conosciuto l’inferno, camminando su una cattiva strada che li ha portati alla detenzione.

Alessandro (nome di fantasia), napoletano verace, è arrivato tre anni fa, a dicembre dovrebbe rientrare a casa. In carcere ha ritrovato la stima di sé, ha preso il diploma di pizzaiolo, l’attestato di primo soccorso e ora frequenta l’istituto alberghiero. «Quando uscirò voglio fare una vita migliore. Qua dentro ho imparato a rubare – sorride –. Rubo la parte buona di quelli che stanno qui, soprattutto della mia educatrice che mi ha tanto aiutato. E se metti insieme il buono di tutti diventi migliore, non credi? Dopo tante cose illecite, desidero un lavoro pulito. Nella vita ci vogliono tre cose: la volontà, la furbizia e la fortuna, le prime due ce le metto io, la terza non dipende da me ma spero che arrivi... Se mi piacerebbe fare famiglia? Certo che sì, voglio avere quattro o cinque figli. Un figlio ti cambia la vita, oggi la gente fa pochi figli perché ha poca speranza. Se perdi la speranza, sei un fallimento». Non male come orizzonte per cambiare strada, anche se lui per primo riconosce di non sapere se è pronto per il grande salto.

Se Alessandro ha qualcuno che l’aspetta a casa, Yasser a casa non ci vuole proprio tornare. È uno dei 12 stranieri ospitati a Nisida (trasferiti qui a causa dell’overbooking che da tempo si registra negli istituti penali per minorenni del Nord) che convivono con 55 italiani, quasi tutti provenienti da Napoli e hinterland. A 14 anni è partito dal Marocco promettendo alla mamma che avrebbe fatto fortuna, è arrivato in Spagna aggrappandosi al pianale di un camion, ha girato per l’Europa campando di espedienti. Una vita grama, lontanissima dai suoi sogni, «ma almeno ho imparato le lingue. Sono andato con gente cattiva che mi ha insegnato cose cattive, ora basta. Se continuavo così restavo sempre a zero, ho capito che si può fare un’altra vita. Qui ho preso la terza media, anch’io faccio l’alberghiero, sto andando a scuola di ceramica, dicono che a calcio sono molto bravo, chissà… No, indietro non torno, al mio Paese lavoravo per tre euro al giorno. Solo che non ho i documenti, come farò a mettermi in regola?».

Storie e destini diversi convivono fianco a fianco in un caleidoscopio di umanità difficile da governare, dove le tensioni non mancano e dove ogni giorno ci si deve misurare con le sfide dell’integrazione e della contaminazione tra culture, con la possibilità di imparare qualcosa dal rapporto con l’altro e di potergli offrire qualcosa di sé. In questi anni, insieme alla composizione della popolazione carceraria, è cambiata anche la natura dei reati. «Fino a tre anni fa facevamo i conti quasi esclusivamente con persone che avevano commesso crimini contro il patrimonio, ora più di un terzo degli ospiti ha compiuto reati contro la persona – omicidi, lesioni, violenze di natura sessuale –, per i quali sono previste condanne più pesanti e quindi tempi di permanenza più lunghi – spiega Gianluca Guida, storico direttore dell’Ipm di Nisida –. È un fenomeno che accomuna italiani e stranieri, i ragazzi spesso non sanno neppure spiegare le ragioni dei loro gesti, c’è una banalizzazione del reato che riconduce a ragioni di fondo: la violenza trova origine in storie di sofferenza, nella rabbia compressa, nella mancanza di riferimenti adulti credibili a partire dalla scuola e dalla famiglia, soprattutto dai padri. Da questi giovani arriva un campanello d’allarme che rimanda alla mancanza di proposte educative efficaci da parte degli adulti. Noi qui facciamo quello che possiamo, ma è necessaria un’alleanza forte tra istituzioni, società civile, terzo settore, parrocchie, come ha esortato a fare l’arcivescovo Domenico Battaglia che ha lanciato l’idea di un patto educativo. Certi reati provocano molto allarme nell’opinione pubblica, ma le misure contenitive come il carcere – pur necessarie – sono una risposta inadeguata alla posta in gioco».

Da tempo a Nisida si è cementato un forte spirito di squadra che si esprime in una collaborazione efficace tra direzione, educatori, personale di sorveglianza e in un’offerta trattamentale su vari livelli: alfabetizzazione linguistica, laboratori (pasticceria, pizzeria, friggitoria, ceramica, restauro edile, manutenzione del verde), sport, teatro, musica, contrasto alle dipendenze e alla violenza come modalità normale di comportamento. L’architetto Felice Iovinella da 13 anni dirige il laboratorio di restauro edile: «Questi ragazzi sono carichi di passato perché coincide con il motivo per cui stanno qui, identificano il futuro con il giorno della scarcerazione ma faticano a vivere il presente. Il lavoro per loro può diventare l’occasione per guardare il presente come una grande opportunità di riscatto e per prendere consapevolezza di ciò che valgono. Ricordo un episodio: un giovane non voleva più continuare l’attività, un giorno un suo compagno gli ha preso la mano e insieme alla sua ha impugnato la cazzuola e l’ha intinta nel secchio. Fu l’inizio della sua ripartenza, aveva incontrato qualcuno che l’aveva rimotivato».

«La nostra bussola è la cura della persona nella sua integralità – ragiona Guida –. Accompagniamo i giovani a scoprire e valorizzare i loro talenti e nello stesso tempo a riconoscere le fragilità che li hanno portati a commettere il reato, e questo può diventare una leva per il cambiamento. Non sogniamo ragazzi perfetti, piuttosto cerchiamo di andare alla radice delle motivazioni che hanno generato la devianza e proviamo a creare delle alternative. La pena deve attivare una dinamica di responsabilizzazione e favorire il mutamento degli stili di vita. Ma solo se noi li ascoltiamo e se loro imparano a conoscersi, possono cominciare a cambiare».

Silvia Vigilante lavora a Nisida da 15 anni come educatrice, un ruolo fondamentale per rilanciare le persone. «Siamo una realtà comunitaria che ha la fortuna di operare in un luogo circondato dalla bellezza, e questo certamente aiuta. Non abbiamo la presunzione di salvare nessuno, solo Dio può farlo. Ma possiamo tendere la mano, accompagnare, incoraggiare. I risultati? A volte si vedono subito, a volte arrivano dopo tanto tempo. E bisogna mettere in conto pure le sconfitte. Ogni ragazzo ha una storia sua, dobbiamo essere flessibili, disponibili a modificare le strategie che mettiamo in campo, avendo ben presente che lavoriamo con persone che vivono la sofferenza più grande – la privazione della libertà – ma che coltivano sogni».

Nei giardini di Nisida un murale racconta i sentimenti che abitano il cuore di questi giovani. È nato dalla collaborazione di alcuni di loro con Maupal, lo street artist romano che da anni opera nelle carceri italiane, all’interno del progetto di avviamento al lavoro “Sole in mezzo”. Un giovane di spalle cammina in direzione del futuro: nella mano sinistra tiene lo zaino simbolo di un passato incancellabile, con la destra regge una palla incatenata, icona della condizione delle persone detenute, che ha una metà nera che fa memoria del passato mentre l’altra metà ha i colori del globo terrestre per testimoniare la volontà di cambiamento. Dalla palla pende una catena spezzata, annuncio di una vita nuova che attende il protagonista. A fianco una scritta: «Ero, ora sono».

A Nisida si coltiva la buona pianta della speranza.

(5 - continua)

Leggi gli altri articoli della serie «Vite cambiate»

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: