Lo storico viaggio di Francesco in Canada offre numerosi spunti di riflessione sul complesso fenomeno della decolonizzazione, un processo articolato che necessita uno sforzo politico e culturale rispetto al quale l’Occidente non sembra ancora sufficientemente impegnato. Uno degli ambiti maggiormente coinvolti nel difficile percorso di restituzione (materiale e simbolica) che è necessario intraprendere con le comunità e i territori un tempo sottomessi è di certo quello dei musei: spazi che hanno svolto spesso il ruolo di moltiplicatori della violazione dei diritti di intere popolazioni, spesso private – insieme con la loro libertà – della propria identità e memoria. La stessa visita del Papa si lega alla richiesta di restituzione di manufatti di provenienza indigena ora conservati presso il museo etnologico "Anima Mundi" in Vaticano.
Il risarcimento delle violenze e delle privazioni inflitte con sistematica e consapevole pervicacia da parte delle grandi potenze europee è stato spesso inquinato da sapienti quanto pretestuose argomentazioni, come quella relativa ai cosiddetti "musei universali", in base alla quale le grandi raccolte storicizzate, capaci di rappresentare la storia dell’umanità, costituiscono dei patrimoni indivisibili che svolgono una irrinunciabile funzione di trasmissione e di dialogo tra le nazioni.
Una buona strada per recuperare il senso della decolonizzazione si apre ai nostri occhi attraverso due possibili percorsi: il primo riguarda il cosiddetto patrimonio etnografico, rispetto al quale il gesto della sottomissione risulta particolarmente feroce, perché indugia in una contrapposizione gerarchica tra "primitivismo" e "sviluppo"; il secondo consiste nell’adozione di uno sguardo invertito, che può essere acquisito attraverso l’ascolto "dell’altro", cioè di chi ha vissuto o ha ereditato l’esperienza della privazione e dello snaturamento del patrimonio. La prima questione riguarda le vastissime collezioni di manufatti, suppellettili, ornamenti che in modo spesso indiscriminato sono state accumulate all’ interno dei musei, in una confusa combinazione di propaganda colonialista e di catalogazione di ispirazione etnografica. Rispetto a queste pratiche espositive, l’evoluzione degli studi antropologici ha favorito la maturazione della consapevolezza di un debito da sanare, un approccio che è stato felicemente sposato da vari musei delle missioni, che sono stati riconfigurati come spazi dell’incontro e della collaborazione tra popoli, veri laboratori di cittadinanza globale.
Capita che oggetti acquisiti con la forza e sottoposti a criteri espositivi "estetici", del tutto estranei alla loro originaria funzione, non vengano rivendicati; in qualche caso, le popolazioni discendenti hanno chiesto di escludere certi reperti dalla pubblica fruizione, magari a seguito di rituali di risanamento dalle profanazioni subite. In tal senso i musei etnologici hanno aperto una forma di decolonizzazione che non è semplice restituzione, ma approda alla definizione condivisa di nuove interpretazioni. Il fatto che questa apertura sia con molta più fatica concessa nei riguardi di opere d’arte entrate a far parte del patrimonio identitario o estetico/visuale dell’Occidente (i marmi del Partenone, le opere del Vicino Oriente, i bronzi del Benin...) fa riflettere sulla sopravvivenza di logiche coloniali ancora difficilissime da sradicare, anche perché connesse a dinamiche geopolitiche fin troppo evidenti.
La seconda questione è di certo la più scomoda e si rivela indossando i panni del sottomesso che legge e interpreta i nostri musei, le nostre collezioni, spesso come ostentazioni di potere, di supremazia, di perpetuazione e persino di riformulazione di certi colonialismi. Su questo fronte si sono mosse alcune grandi istituzioni, per esempio la Tate Britain di Londra e diversi musei tedeschi.
Esiste poi una decolonizzazione più complessa che consiste nell’autoriflessione dell’Occidente, nella rilettura dei propri modelli, nel riconoscimento di stereotipi ancora diffusi e maldestramente negati, che continuano a trasmettersi nei linguaggi, nell’immaginario visuale, nei canoni delle discipline. Pensiamo alla potenza trasmissiva di un dipinto-icona come l’Olympia di Manet, dove la presenza di una cameriera afro-discendente sentenzia e perpetua un ruolo di subordinazione che la maggior parte dei visitatori bianchi semplicemente assimila e dà per scontata. In assenza di un processo di lettura critica capace di stimolare la riflessione dei pubblici, l’atto espositivo non fa che reiterare il messaggio discriminatorio, che non va taciuto o mascherato, bensì disinnescato.
Il lavoro della decolonizzazione parte innanzitutto dall’ascolto e dal riconoscimento, ricercando nel patrimonio materiale soprattutto la sua capacità di stimolare le coscienze delle persone e delle nazioni. Il più grande errore che si possa commettere su questo terreno insidioso è quello dell’omissione, il colpevole azzeramento delle responsabilità che conduce alla cancel culture.