Le poche riflessioni che seguono riusciranno a scontentare quasi tutti i lettori. In un dibattito pubblico deprecabilmente contrassegnato da una tifoseria da stadio, nel quale tutte le idee espresse dal tal partito o dal tal uomo politico o si “condividono” o si è “avversano” in blocco, mi accingo infatti a sostenere che nell’intervento recentemente tenuto dal ministro Nordio in occasione del 60° anniversario dall’entrata in vigore della legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti è possibile rinvenire sia impeccabili affermazioni di principio sul ruolo della stampa, sia una sgrammaticatura giuridica. E questo contrarierà i fan, senza soddisfare i detrattori.
Ma tant’è. Oltre alla importante, ma scontata affermazione che «la stampa libera è uno dei fondamenti della democrazia liberale e della cultura », il Guardasigilli giustamente ha voluto sottolineare che questa non può consistere nella irrealistica pretesa che il singolo organo di informazione sia economicamente e ideologicamente indipendente e neutrale, bensì nel garantire il più ampio pluralismo delle testate e delle idee, in modo che il cittadino possa formarsi un’opinione attingendo alle diverse e spesso confliggenti prospettazioni. Un’asserzione ineccepibile. Si può essere persino più perentori: non può parlarsi di democrazia liberale in un Paese che non è in grado di garantire il pluralismo delle faziosità.
Dove invece il discorso del ministro Nordio sembra prendere una stecca, fuoriuscendo dal pentagramma normativo, è quando arriva a sostenere che se un giornalista pubblica una notizia riservata riguardante le indagini penali «la colpa non è del giornalista», che non va «incriminato e nemmeno censurato»: la colpa è «di chi consente la diffusione di queste notizie o non vigila abbastanza affinché non vengano divulgate». Il giornalista che divulga l’informazione relativa a un atto di indagine di cui è vietata la pubblicazione tiene, invece, una condotta penalmente reprensibile. Altrimenti riuscirebbe difficile comprendere a cosa si riferiscano gli artt. 114 c.p.p. e 684 c.p. che precisano, rispettivamente, per quali atti processuali sia previsto il divieto di pubblicazione e come ne sia penalmente sanzionata l’inosservanza. Una responsabilità penale certo meno grave di quella in cui incorre il pubblico ufficiale che gliel’ha illecitamente fornita, il quale risponde del ben più grave delitto di rivelazione di segreto d’ufficio (art.326 c.p.), ma pur sempre una condotta penalmente censurabile (salvo che non si dimostri il preminente interesse pubblico alla conoscenza di quella determinata notizia: ma su questo non è qui possibile soffermarsi).
Non meno inaccettabile risulterebbe l’affermazione del ministro, ove avesse voluto esprimere soltanto un auspicio de futuro: significherebbe avallare l’idea secondo cui tutto ciò che finisce sulla scrivania, fisica o informatica, del giornalista possa o, secondo alcuni, addirittura debba essere pubblicato, sacrificando ogni contrapposto interesse sull’altare della libertà di stampa. Tesi non solo giuridicamente, ma anche culturalmente insostenibile, che non rende un buon servizio alla funzione democraticamente imprescindibile del diritto di cronaca. Una posizione culturalmente speculare a quella, certo non meno censurabile, di coloro che, di recente, sono arrivati a sostenere che il giornalista non deve avere accesso alle informazioni processuali non più segrete, dovendo attingere le notizie soltanto dai comunicati che l’autorità giudiziaria decide insindacabilmente di emettere: un giornalismo degradato, cioè, da cane da guardia del potere a cane da riporto delle Procure.
La logica andrebbe esattamente ribaltata: ai giornalisti dovrebbero essere riconosciuti maggiori diritti quando si informano per poter informare e maggiori responsabilità in ordine a ciò che pubblicano e a come lo pubblicano. Ma le cose non cambieranno facilmente: costringere gli operatori dell’informazione all’accattonaggio della notizia processuale e poi tollerare che sia pubblicato anche ciò che non andrebbe pubblicato è andazzo gradito sia alla più spregiudicata magistratura inquirente sia al più cinico giornalismo giudiziario.
Giurista, Università di Roma La Sapienza