Limitare il disonore. Credo che questo Francesco abbia chiesto a noi europei nella visita in Francia, a Marsiglia, e poi all’Angelus di domenica. Richiamandoci a «difendere il diritto di migrare» e al dovere di accogliere «quanti bussano alle nostre porte».
Il disonore di vedere il Mediterraneo diventare un mare di morti, per tacere di quelli, innumeri, che sono caduti in terra d’Africa senza neppure arrivarci al mare, o sulle rotte balcaniche. Macron di fatto ha risposto a lui, quando, richiamando i numeri delle richieste d’asilo in Francia e gli sforzi econo-mici per l’accoglienza d’urgenza, ha soggiunto «ma non possiamo accogliere tutta la miseria del mondo». Al netto del vergognoso e diffuso approccio in Europa di chi della miseria del mondo non vuole accogliere neppure una parte, un punto di verità quanto dice Macron. E che però è in tragica collusione con una verità storico-fattuale più grande: che si è sempre migrato, e sempre per gli stessi motivi, la fame e la guerra; e fare distinzioni tra i due moventi è argomento di lana caprina.
Le migrazioni hanno una logica tellurica, accadono per epicentri di sommovimento e sciami sismici di assestamento. Il punto è come governarle. Diritto di migrare e dovere dell’accoglienza sono strumenti – non i soli certo, ma decisivi accanto a quelli economici e politici – di questo governo, se si vuole almeno provare ad averlo, del processo migratorio in atto, legato ad una transizione demografica che forse si stabilizzerà a fine secolo. Transizione intrecciata a quella economica e a quella climatica, con quest’ultima che sarà sempre più incisiva, se è stimato che tra cinquant’anni saranno inabitabili termicamente aree del pianeta dove ora vivono due miliardi di persone.
Noi dobbiamo governare questo secolo, se non ne vogliamo essere travolti. E i muri non hanno mai funzionato, né quelli geografici, né i muri costruiti: dalla muraglia cinese al Vallo d’Adriano. Solo i ponti hanno tenuto insieme il passato e il presente. L’Europa che conosciamo, l’Europa che siamo diventati, è nata dal fatto che i muri non hanno tenuto. Epperò il mondo romano e poi cristiano, come civilizzazione proto-europea, è stato il grande ponte – culturale, spirituale – che ha “fatto” l’Europa che siamo: non solo l’Europa latina, ma quella franca, germanica, scandinava, slava. Ciò è stato reso possibile prima dalla capacità del Pantheon romano di accogliere gli dei degli altri popoli, e poi dalla cristianizzazione di questo Pantheon come capacità di accogliere nell’ecclesia cristiana, e di quanto questa aveva salvato del mondo romano, interi popoli, e ogni individuo di quei popoli perché non ci sarebbe stato più «né giudeo, né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna». Si dirà: è filosofia della storia, e per altro all’ingrosso. E non possiamo pretendere di “cristianizzare” chi arriva.
Non è ripetibile nei modi il “successo europeo” delle invasioni barbariche. È del tutto ovvio. Epperò la congiuntura epocale è quella. E non abbiamo a disposizione neppure i secoli che hanno avuto le invasioni barbariche, ma al più qualche decennio. Come possiamo allora fare “europei” quelli che arrivano, e di cui abbiamo bisogno e che comunque non ci possiamo evitare? Forse l’Europa deve farsi più larga e più forte. Più forte: politicamente ed economicamente più coesa, più “una”, tornando a darsi un futuro innanzi tutto nella sua demografia “indigena”, sì da poter avere meno paura ad accogliere, per una maggiore capacità di integrazione, per una maggior quota di miseria del mondo di cui può farsi carico, salvando per altro la sua stessa “ricchezza” dal declino e più ancora la sua “anima”.
Più larga: portare in Africa il benessere europeo, volgere la storia della colonizzazione a seme di un’unione economica e politica euro-africana, immaginando che a fine secolo, a transizione demografica conclusa, ci sia Eurafrica, cioè certamente Africa, ma anche Europa. L’Europa che avremo saputo diventare.