Siamo ormai in vista delle elezioni europee e le questioni dell’immigrazione e dell’asilo occupano un posto centrale sia nell’agenda di Bruxelles sia all’interno dei Paesi membri. Un tema, un tempo abbastanza marginale, è diventato prioritario nei pronunciamenti governativi, nei programmi dei partiti e nelle preferenze degli elettori. Una nuova 'domanda di confini' e di più rigida regolazione degli accessi è il tratto saliente del dibattito. Partiti politici sempre più forti e alcuni governi, tra cui il nostro, si sono impadroniti di questo vessillo, marcando in molti modi le differenze tra 'noi' e 'loro'.
Le istituzioni dell’Unione Europea e i governi meno inclini alla deriva sovranista affrontano la materia con difficoltà crescenti. In democrazia hanno bisogno degli elettori, ma devono anche osservare le regole fissate dalle proprie Costituzioni, dalle convenzioni internazionali e dagli stessi accordi sottoscritti nell’ambito della Ue.
Vorrebbero tenere il grosso degli immigrati e tutti i rifugiati lontani dalle loro frontiere, ma nello stesso tempo si sono impegnati a difendere i diritti umani. Nella gestione di questa tensione l’impressione prevalente vede una mancanza di visione e di strategia, ma in realtà alcune decisive scelte politiche sono ben individuabili. Riguardo a quelle che vengono definite 'migrazioni economiche', la scelta è quella della selezione dei candidati secondo tre criteri, che potremmo definire 'le tre P': i passaporti, i portafogli, le professioni.
Riguardo ai passaporti, si è proceduto anzitutto con l’allargamento dell’Ue verso Est: una politica migratoria non dichiarata, che ha concesso a milioni di persone la libertà di circolare e di cercare lavoro nei Paesi più prosperi e bisognosi di manodopera, Italia compresa. Con la politica dei visti inoltre si tollera l’ingresso dei cittadini di un numero crescente di Paesi europei non comunitari: nel 2010 sotto un Governo di centrodestra, con Maroni ministro dell’Interno, l’Italia ha eliminato l’obbligo del visto per tutti i Paesi dell’area balcanica. Il governo Gentiloni l’anno scorso l’ha eliminato per l’Ucraina. Più in generale si autorizza facilmente l’ingresso dei cittadini di Paesi sviluppati o presunti tali. Il Brasile per esempio.
A proposito dei portafogli, i governi autorizzano con favore crescente l’insediamento degli stranieri che si presentano come investitori, e in certi Paesi anche della Ue (Cipro, Malta) si accorda loro la cittadinanza. Mentre discutiamo di ius soli e ius sanguinis, è stato introdotto lo ius pecuniae: la facoltà di acquistare la cittadinanza grazie al denaro. Infine, le professioni: con uno specifico permesso, la Carta Blu, la Ue ammette l’ingresso di professionisti di diversi settori. Non solo scienziati ed esperti di tecnologie di punta: la circolazione di migranti qualificati, nella Ue come in tutto il Nord del mondo, riguarda soprattutto il personale sanitario.
Per quanto riguarda i rifugiati, la politica principale consiste nell’esternalizzazione dei confini. Incapaci di accordarsi sulla riforma delle convenzioni di Dublino, governi e istituzioni della Ue si sono facilmente accordati sull’ingaggio come guardie di frontiera di Paesi terzi, come la Turchia, la Tunisia, il Niger e infine la Libia: a loro è stato demandato il compito di fermare i richiedenti asilo in transito prima del loro ingresso sul territorio dell’Unione, dove potrebbero domandare la protezione internazionale.
Poco importa come sono trattati e in quali condizioni trattenuti. Nel medesimo tempo l’accoglienza umanitaria diventa sempre più volontaria e quindi facoltativa. La Ue è rigidissima sulle regole applicate alla produzione di latte o di olio di oliva, ma assai flessibile sulla protezione dei diritti umani. Su questo tema il 'gruppo di Visegrad' di fatto ha vinto la partita, e gran parte degli altri giocatori sono stati contenti di perderla. Ciò che rischia di rimanere sul terreno però non è soltanto la solidarietà con i rifugiati, bensì il senso e lo spirito del progetto europeo.
Università di Milano e Cnel