Cinquanta milioni di anni fa, i mari dell’Antartide erano così caldi da nuotarci agevolmente e le regioni artiche erano ammantate da foreste tropicali: il termometro del pianeta segnava tra i 5 e gli 8 gradi in più rispetto ad oggi. Tra centomila anni fa e l’inizio dell’Olocene (circa 10 mila anni addietro), la Terra si raffreddò progressivamente, fomentando una fauna di lupi preistorici, tigri con denti a sciabola e mammut: globalmente, l’asticella della temperatura segnava tra i 4 e i 7 gradi in meno rispetto al presente. Oggi sappiamo che abbiamo circa 10 anni per ridurre drasticamente le emissioni globali di Co2, metano e protossido di azoto affinché il Pianeta non superi la soglia critica di 2 gradi in più rispetto alla temperatura attuale, mettendo a rischio la nostra stessa sopravvivenza. Qualora ciò non accadesse, lo scenario che si apre è inedito per l’uomo da almeno 10mila anni. E non sarebbe di certo positivo: qualcosa di simile ad aver appiccato il fuoco al nostro soggiorno, mentre ci chiudiamo in cucina e cerchiamo di impedire a chi sta in salotto di abbandonare la sala in fiamme e così migrare verso un luogo più sicuro.
Se pensassimo al mondo come alla nostra casa, risolvere i problemi del villaggio globale sarebbe una priorità condivisa: un impegno quotidiano. Se il pianeta fosse un villaggio di 1.000 persone, il 60% sarebbe asiatico e solo un centinaio europeo. Uno su tre sarebbe cristiano, uno su tre sarebbe un bambino. Soprattutto, sarebbe chiaro capire cos’è che non va: 90 persone su 1000 possederebbero l’80% del reddito totale, i rifugiati sarebbero 7, gli schiavi 5 e quasi 200 avrebbero un’automobile. Se questo villaggio fosse sconvolto da carestie dovute alla siccità, però, non sarebbe possibile scappare in un altro luogo o continente: il nostro mondo sarebbe tutto lì e non rimarrebbe altra soluzione che inventarsi qualcosa per risolvere i nostri problemi. Bene, è esattamente la situazione in cui si trova oggi il nostro piccolo villaggio globale chiamato Terra. La buona notizia è che le tecnologie moderne possono aiutarci a risolvere qualsiasi problema di coesistenza: disponibilità di cibo, acqua, energia, condivisione degli spazi, sviluppo culturale. La cattiva è che la storia insegna che reagire male o tardivamente ai mutamenti delle temperature può distruggere intere civiltà.
Avvenire continua il viaggio dell’uomo dell’Olocene per raccontare come i cambi climatici abbiano influito sulla nostra evoluzione: spingendola a migliorarsi o portando al collasso imperi antichissimi. Anasazi, Maya, l’Antico Egitto: sono solo alcune delle civiltà antiche scomparse nel corso della storia umana, a causa dell’impatto dei cambi climatici. Guardando ancora più indietro, si arriva alla più antica città della nostra storia: Uruk. Nacque tra 5800 e 5200 anni fa, periodo in cui si svilupparono le città sumeriche nella Mesopotamia meridionale. Intorno al 2200 a.C., quest’area mediorientale fu segnata da un periodo di forte aridità, durato circa tre secoli: terre secche, raccolti sempre più scarsi, e nel corso degli anni la prodigiosa società accadica si dissolse. Un destino simile alla civiltà degli Harappa, nella valle dell’Indo, nata intorno al 4000 a.C. e scomparsa intorno al 1800 a.C.: il motivo? Anche in questo caso, la siccità che ha costretto la popolazione ad abbandonare la città. Come successe agli abitanti della città bizantina di Elusa, nel deserto del Negev, in Israele, collassata intorno al VI secolo d.C. Secondo quanto ricostruito dagli archeologi, la civiltà cominciò il suo declino un secolo prima. La prova sta nella montagna di detriti trovati in una montagnetta nella zona: noccioli di oliva, cocci di vasi, ossa di animali. In pratica, 100 anni prima della fine della loro civiltà, gli abitanti di Elusa smisero di raccogliere la spazzatura. Un segno di resa dovuto alla mancanza di acqua e cibo, prima della propria fuga. È ciò che sta succedendo nel Sahel e in tutta l’Africa subsahariana: temperature che arrivano ai 50 gradi, campi aridi, povertà che innesca conflitti per accaparrarsi le ultime risorse. Sono questi i motivi che spingono milioni di persone a scappare verso nord.
L’aumento delle temperature ha sempre avuto un impatto su popoli e civiltà, causando esodi, declino o mutazioni sociali Oggi abbiamo gli strumenti per intervenire
Giacomo Gerosa, coordinatore del gruppo di Fisica Ambientale ed Ecofisiologia del dipartimento di Matematica e Fisica dell’Università Cattolica, spiega questo processo: «Con i cambi climatici si modificano i biomi: uno pensa alle alluvioni, agli uragani, ma il surriscaldamento sposta completamente gli ecosistemi. Prendiamo una zona dove c’è una savana: le temperature medie aumentate dal surriscaldamento globale porteranno lentamente ad una transizione dell’ecosistema verso la steppa e poi verso il deserto. È ovvio che se sei ad esempio un pastore, sposterai le tue greggi verso nord: è una questione di sopravvivenza. Questo processo di migrazione climatica è sempre avvenuto nel passato, avviene oggi e sicuramente continuerà. Da sud, in particolare dalla circonferenza dell’Equatore, verso nord». I migranti climatici non sono la novita? di questo secolo, ma la costante della nostra storia. Basti pensare che le lingue indoeuropee risalgono agli Yamnaya: popolo emigrato dalle steppe russe tra il 3200 e il 2300 a.C. alla ricerca di condizioni di vita migliori, il cui dna si ritrova oggi in quasi tutti i popoli europei. Tornando ai giorni nostri, la grande carestia irlandese, che tra il 1845 il 1849 uccise oltre un milione di persone, contribuì alla nascita degli Usa. Le cause della scarsità dei raccolti erano legate a una patologia delle patate che si unì a condizioni climatiche avverse: così un milione di irlandesi emigrò - in gran parte - verso gli Stati Uniti d’America. E concorse a creare la federazione di stati che ha dominato il mondo lungo il Novecento.
Tutte queste circostanze storiche mostrano come le alterazioni climatiche siano in grado di produrre mutazioni so- ciali, a volte rigeneranti, a volte drammatiche. Secondo uno studio pubblicato su Nature, se la temperatura globale continuerà a salire, il Pianeta potrebbe ospitare una crescita del 26% dei dei conflitti armati (e non è la stima più pessimistica). Il legame tra conflitti e clima nasce soprattutto dalla scarsità di risorse: nel 2030, con oltre 9 miliardi di esseri umani, avremo bisogno del 50% in più di cibo ed energia, e del 30% in più d’acqua. Per dare una dimensione del problema, basti pensare che nei prossimi 40 anni dovremo produrre più cibo di quanto mai fatto negli ultimi 80 secoli. «Il cambio dell’atmosfera - riprende Gerosa - è avvenuto in milioni di anni, tra una glaciazione e l’altra passano circa 50mila anni. Basti pensare che la pianura padana fino a 3.000 anni fa era una foresta e i Romani dovettero attraversarla a colpi di machete. Oggi i mutamenti avvengono in 50-100 anni e i sistemi naturali non riescono a stargli appresso. Il guaio dell’uomo è che non sta lasciando tempo al pianeta di adattarsi a cambiamenti repentini». Così l’immigrazione diventa un tema politico, 'di pancia'. «E l’emozionalità ci fa perdere un aspetto di coscienza, importante: alla base dei flussi migratori, c’è un elemento fondamentalmente scientifico», conclude Gerosa.
Oggi abbiamo tutte le possibilità per affrontare il futuro (comunque caldo) che ci si prospetta come un’opportunità di rilancio: non come una condanna ineluttabile. È il senso dell’Agenda 2030 dell’Onu, dei 17 Sdgs, della direzione che l’Unione Europea cerca di dare al continente con l’European Green Deal. Il Covid 19 ci insegna quotidianamente che solo una risposta comunitaria ha la forza di affrontare una sfida globale. In questo senso, il Migration Pact proposto dalla Commissione europea è un passo in avanti ancora troppo timido: affronta solo le conseguenze (gli arrivi e i rimpatri) e non le cause delle migrazioni climatiche. Che non sono una minaccia ma un sintomo sistemico di un problema che richiede soluzioni multilaterali, sacrifici individuali, condivisione di responsabilità per diventare una possibilità di crescita comune.