Mentre i nostri politici si accapigliano in una frenetica danza mediatica nel tentativo di conquistare il bastone, o bastoncino, del comando, la scorsa settimana in Sicilia sono sbarcate circa duemila persone. Tredicimila nei primi cinque mesi dell’anno, il che significa più del 70% in meno rispetto al 2017. Con tutto ciò, la propaganda tesa a speculare sulle paure nazionali non accenna a scomparire, anzi è già ripresa con toni ben riconoscibili pronti a suonare forte nell’imminente seconda campagna elettorale 2018. È la stessa musica che, dopo aver affossato la legge sul diritto alla cittadinanza dei minori stranieri, ha contribuito a 'sfoltire' le organizzazioni umanitarie lasciando più soli gli operatori impegnati a fronteggiare gli arrivi via mare in condizioni disperate e disperanti.
Mentre invece avremmo bisogno di ulteriori sforzi operativi, ad esempio per potenziare, sin dall’inizio, la formazione scolastica dei migranti. I flussi sono molto variabili: in questa fase registriamo un cospicuo aumento delle partenze dalle vicinissime coste tunisine. Ma la tendenza potrebbe cambiare dalle prossime settimane. Ad Augusta, Pozzallo, Messina e Trapani – nella terra del Presidente della Repubblica ingiustamente umiliato e offeso – giungono uomini, donne e bambini del tutto inconsapevoli dei rischi che li attendono, spinti soltanto dall’istinto di sopravvivenza: è l’energia cinetica della specie umana, la medesima che ha portato tutti noi sin qui, in grado di illustrare i fasti della civiltà cui apparteniamo.
Alcuni, come il piccolo Miracle, nascono in mare e adesso dormono placidi fra le braccia delle madri: ci piaccia oppure no, saranno loro i nuovi cittadini italiani. Altri, tipo gli scampati di Beni Walid, famigerato campo di detenzione libico, sentono ancora fischiare nelle orecchie i proiettili che hanno falciato i compagni di fuga: ben quindici pare siano caduti sotto il fuoco dei trafficanti nella Tripolitania il cui antico 'bel suol d’amore' si tinge sempre più di sangue innocente. A queste prove terribili vengono sottratti solo coloro che riescono a imboccare la stretta e preziosa via dei 'corridoi umanitari'.
Esemplari e benedetti (e non solo perché nascono da un’iniziativa ecumenica che si è fatta patto civile con il nostro governo e qualche altro), ma ancora troppo stretti. Scrivo questo articolo nel frastuono di un grande 'open space' alla periferia della capitale: davanti a me un centinaio di migranti sta ricevendo lezioni di italiano da altrettanti volontari, a un tiro di schioppo dal Quirinale dove domani tornerà Carlo Cottarelli, impegnato a formare il governo neutrale e di servizio che ci accompagnerà alle nuove elezioni. Abubacar, testa bassa e pugni sulle guance, ripete il passato prossimo, così come Giorgia gliel’ha insegnato. Salif, che arriva sempre tardi, si è sistemato su uno sgabello a fianco di Irene. Faith compone l’alfabeto colorato. Wahid gioca col serpentone. Virginia afferra il mappamondo di plastica e lo piazza sul banco per ricostruire insieme a Jamal il percorso che lui ha fatto. Ibrahim scarta la caramella. Baba consulta il dizionario.
È difficile trattenere lo sgomento ma anche il sentimento di meraviglia che sto provando adesso. Da una parte ci sono le sfasciate istituzioni del mio Paese, che Dante e Petrarca definirono bello forse pensando alla lingua che ne costituiva il corpo, visto che l’unione politica ai tempi in cui vissero era soltanto un sogno; dall’altra scruto adolescenti di tutto il pianeta impegnati a svolgere, con ammirevole solerzia esecutiva e incredibile passione pedagogica, uno straordinario compito umano e culturale: Eslam e Malik, appena arrivati nei Centri di pronta accoglienza, parlano con Alberto e Benedetta, che stanno finendo le ore di alternanza scuola-lavoro. I primi sono voluti venire qui ad ogni costo: hanno ancora negli occhi la polvere del deserto, sulla pelle recano i segni delle recenti avventure.
I secondi fra qualche giorno andranno a vedere i quadri dello scrutinio per sapere se sono stati promossi. Così, in questo hangar dell’ostello universitario di Casal Bertone, nell’Urbe imperitura, misuro tutta la distanza fra le parole vuote dei fabbricatori di consenso e la vera potenza dell’esperienza reale. Allora ancora una volta mi sorprendo a sillabare la vecchia speranza. Sì, aveva ragione Elsa Morante. Il mondo lo salveranno proprio loro: i ragazzini.