È stato ridicolo proibire quattro lezioni di Paolo Nori su Fëdor Michajlovic Dostoevskij, come in un primo tempo aveva annunciato il prorettore dell’università Bicocca di Milano per evitare polemiche in questo momento carico di tensione. Ridicolo. Un po’ tutti lo hanno evidenziato e difatti le lezioni fortunatamente si faranno. Ma, al di là di questo evidente infortunio, forse non è vano formulare qualche pensiero più generale al riguardo.
Dovremmo sapere che, come dichiarò in modo memorabile Cesare Pavese nella "Casa in collina", io credo il suo capolavoro, «ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione». Una conclusione folgorante sulla quale è bene tornare a riflettere. Fare gli schieramenti, chiedere stai con me o contro di me? è già, di per sé, una violenza primaria che la civiltà umana ha cercato di superare attraverso i codici giuridici. Tale ragionamento lo possiamo applicare ed estendere anche negli scontri personali, magari meno cruenti di quelli bellici: vincere, in qualsiasi contesa, comporta un prezzo da pagare; riuscire a farlo capire a un ragazzo, ad esempio, significa condurlo alla maggiore età. È la solitudine della medaglia d’oro.
Tuttavia, restando fermi alla drammatica cronaca dei nostri giorni difficili, sarebbe scorretto negare che il tragico conflitto in corso sia davvero fratricida destinato quindi a lasciare sul campo una orribile striscia di sangue, non solo perché i contendenti hanno antiche radici comuni, intrecciate nei secoli, ma in quanto si tratta di gemelli (e, infatti, il, direttore di questo giornale ha scritto di uno sconvolgente «gemellicidio»). Trovare, con pazienza certosina, senza farsi trascinare nel gorgo delle reciproche rivendicazioni, un accettabile patto di convivenza fra i due popoli ora contrapposti, servirebbe anche a ristabilire l’equilibrio planetario, mai come adesso minacciato. Sciogliere il groviglio non sarà impresa da poco, perché non si tratta soltanto di un problema territoriale. È una questione più profonda e viscerale che proprio la letteratura può spiegare.
I grandi scrittori ucraini moderni, quelli da cui come occidentali siamo stati formati, da Nikolaj Vasil’evic Gogol’ a Isaak Emmanuilovic Babel’, da Michail Afanas’evic Bulgàkov a Vasilij Semënovic Grossman, frequentarono le accademie moscovite e pietroburghesi, si espressero dunque in lingua russa, lasciandosi avvolgere dal suo manto, senza rinunciare alla propria incoercibile identità, anzi affermandola paradossalmente ancora di più. Perché lo fecero? Dovevano parlare a testa alta con Aleksandr Sergeevic Puškin, Lev Tolstoj e, per l’appunto, Fëdor Michajlovic Dostoevskij, vale a dire i capostipiti, coloro che hanno edificato la cattedrale del romanzo: luogo spirituale assoluto dove gli esseri della nostra specie, nessuno escluso, trovano dimora.
Chi scelse di restare, seppur prevalentemente e non in modo esclusivo, all’interno della lingua ucraina, come Ivan Jakovyc Franko, fu costretto a un’innegabile marginalità: che pure rappresenta, ammettiamolo, il suo onore e il suo vanto.
Vladimir Putin, sempre più solo, anche rispetto alla nuova visibilità del mondo digitale che ha usato più volte contro gli altri, ma che – da uomo del vecchio Novecento – forse stavolta ha inizialmente sottovalutato, ha lanciato le sue truppe oltre i confini prima riconosciuti e poi negati e sta avvelenando i pozzi, quasi dimenticando le sagge parole di Immanuel Kant, oggi sepolto nella cripta di Kaliningrad: «In guerra bisogna evitare le azioni che rendono impossibile ogni futura riconciliazione». I primi a ricordarglielo sono proprio i tanti giovani metropolitani finiti agli arresti dopo aver manifestato contro di lui con ammirevole coraggio: non è la nostra guerra, hanno gridato. Fratelli nostri. E russi fin dentro il midollo.