Caro direttore, non mi sono schierato nel dibattito referendario, preferendo offrire in molti incontri pubblici un contributo al discernimento, a far crescere la consapevolezza sulle potenzialità e sui rischi di una riforma costituzionale (e elettorale) in chiaroscuro, con taluni obiettivi condivisibili (superamento del bicameralismo paritario; voti a data fissa e limiti ai decreti legge, con migliore governabilità; soppressione Cnel; correzione di alcune competenze regionali), ma anche con questioni di fondo assai problematiche e in contrasto con princìpi fondamentali (Senato pasticciato, più Camera politica di serie B che voce delle autonomie; neocentralismo spinto con forte ridimensionamento di un ruolo responsabile di Regioni ed enti locali; privilegi delle Regioni speciali blindati; premierato assoluto senza reali contrappesi). Ho anche cercato di evidenziare possibili interventi o iniziative pre-referendum in grado di migliorare o almeno di attenuare qualche criticità o ambiguità del testo della riforma, ricreando un clima maggiormente collaborativo, cercando elementi di convergenza indispensabili per non minare il senso stesso della Costituzione come “casa comune”. È invece prevalso sempre più l’effetto divisivo di un metodo riformatore che già nell’avvio e nel dibattito parlamentare aveva visto compromessa la possibilità di un consenso maggiore per un intervento costituzionale di così ampia portata. Il premier e il governo non hanno fatto molto nei fatti per correggere la deriva plebiscitaria: di qui un confronto sempre più spostato sul piano della contrapposizione politica, con parole laceranti e toni inaccettabili da tutte le parti. Tutto ciò ha via via snaturato il dibattito, sacrificando in larga misura non solo le valutazioni sul merito della riforma, ma anche la stessa percezione del valore delle scelte di sistema, che richiedono coerenza con i princìpi, sforzo unitario e rispetto reciproco, aldilà delle (contingenti) differenziazioni frutto del pluralismo politico. In gioco è un bene prezioso per la democrazia contemporanea, la Costituzione, nella sua essenza di Legge fondamentale riconosciuta come base stabile della convivenza politica e civile. In sostanza, si sta stravolgendo e compromettendo la “coscienza costituzionale”, un patrimonio essenziale per una Repubblica democratica che voglia garantire seriamente il proprio futuro. Per questo ho deciso di astenermi dal voto il 4 dicembre: l’unico modo a mia disposizione per prendere le distanze da questa aberrazione divisiva, per non concorrere ad alimentare la contrapposizione degenerata e strumentalizzata di questo referendum e per cercare di esprimere in modo (simbolicamente) forte il mio disagio di cittadino responsabile, oltre che di giuspubblicista. Sperando così anche di far emergere, qualsiasi sia l’esito referendario, l’esigenza di recuperare – nonostante queste premesse fuorvianti – un clima idoneo a riprendere il dialogo per una adeguata modernizzazione delle nostre istituzioni politiche.
Gian Candido De Martin emerito di Diritto pubblico della Luiss di Roma
Avevo pubblicato volentieri, caro professor De Martin, un suo bel contributo al dibattito pre-referendario e accolgo, ora, con rispetto anche questa decisione di cui mette a parte me e tutti i lettori di “Avvenire”. So che la sua astensione è una scelta sofferta, che giunge al culmine di un generoso impegno “di servizio” per far crescere in tanti concittadini la consapevolezza di ciò che c’è davvero in ballo nella consultazione di domenica prossima, 4 dicembre. Mi permetto di dirle che non la condivido, perché condivido profondamente la chiamata alla partecipazione responsabile in occasione di un referendum costituzionale, che come lei sa meglio di me non ha quorum e, dunque, non offre al cittadinoelettore la possibilità di bocciarlo (per il suo contenuto o per il tono con il quale si è sviluppato il dibattito che avrebbe dovuto “illuminarlo”) facendolo fallire, cioè non recandosi al seggio. Il 4 dicembre, invece, a prescindere dal numero di quanti andranno alle urne, prevarrà comunque o il Sì o il No alla riforma della Costituzione varata dal Parlamento e che archivia il bicameralismo perfetto introducendo nuovi iter per la formazione delle leggi, ricalibra le relazioni tra Stato ed Enti locali, cancella Cnel e Province e riduce le retribuzioni dei consiglieri regionali, disegna un nuovo percorso per l’elezione del Presidente della Repubblica. Io credo che sia giusto che più italiani possibile dicano la loro, senza lasciare a una minoranza (più o meno) militante l’intero potere di conferma o di rigetto della riforma stessa. Ecco perché sulle pagine di “Avvenire” ci siamo sforzati di accompagnare la riflessione dei nostri lettori, a nostra volta senza schierarci per il Sì e per il No e non suggerendo l’astensione. Anche i nostri vescovi si sono espressi per una democratica e consapevole «partecipazione», e il loro invito conforta e sprona. Le do atto che lei, a suo modo, e lo spiega molto bene, da fine intellettuale e acuto giurista qual è, riesce a dare un contenuto attivo anche questo suo non-voto annunciato. Ma la strada maestra per affrontare il passaggio del 4 dicembre è votare a questo referendum. Che, malgrado gli sforzi di più d’uno, non è un’ordalia, ma una grande occasione per vivere e far vivere la nostra democrazia.