Gentile direttore,
seguo il vostro giornale da diversi anni. È importante per me la vostra visione del mondo e la vostra lettura giornalistica degli avvenimenti. Uno dei pochi scritti su cui mi trovo a dissentire riguarda l’articolo apparso sul numero di domenica primo ottobre, nella pagina dei commenti, a firma di Gerolamo Fazzini, “Ricordare gli orrori del genocidio ruandese”, in cui si commentava la recente decisione di inserire nella lista Unesco quattro memoriali dei massacri avvenuti nel 1994. Mi pare che l’articolo segua una narrazione dipendente dalla versione ufficiale fatta circolare dalle Autorità tutsi impadronitesi militarmente del potere in Ruanda nel 1994, proprio immediatamente dopo il massacro dei tutsi. Tale versione ha individuato negli hutu gli unici colpevoli e nei tutsi le sole vittime. La versione di quanto avvenuto nel 1994 e negli anni successivi ha avuto numerosissime critiche sostanziali a motivo della sua faziosità e della sua interpretazione travisatrice e ingannevole dei fatti. Ciò è ampiamente documentato: da decine di libri, da innumerevoli articoli su giornali e riviste, da relazioni di ricercatori e esperti dell’Onu, dal pronunciamento del Tribunale di Arusha (Corte Penale Internazionale), da protagonisti sul campo, persino da tutsi ricoprenti cariche elevate militari e politiche all’interno del governo. Questa montagna di documentazione mostra come i ruoli di “colpevoli” e “vittime” si siano presto invertiti e gli orrori non si siano arrestati. Eppure, ancora oggi, la versione più comodamente ripresa nei mass media e nel mondo giornalistico è quella ufficiale di allora. Grazie e buon lavoro, continuerò a leggervi.
Umberto Vergine Brescia
Gentile Umberto, da responsabile della redazione Esteri di Avvenire, nel rispondere su richiesta del direttore alla sua interessante osservazione, le premetto che il nostro giornale si è sempre posto di fronte a questa tragica vicenda con una posizione precisa: il massacro ruandese venne perpetrato su tutsi e hutu moderati. Come a dire che fare di tutta l’erba un fascio non è nostro costume, e neanche l’illusione che la società ruandese fosse divisa a compartimenti stagni dominati dall’ideologia dell’allora soldato e da allora presidente immarcescibile Paul Kagame e dai leader degli hutu. Le menti e i cuori liberi, come sempre, hanno pagato per primi. Così come, per trovare e provare i veri responsabili di quei tre mesi di follia “eteroguidata”, ci vorrebbero volumi da riempire una biblioteca, e forse non basterebbero, considerato che la verità è la prima vittima di ogni guerra. I cadaveri galleggianti nel lago Vittoria li hanno visti tutti nelle tremende immagini televisive che, per la verità, hanno restituito un millesimo del dramma di quei giorni di quasi trent’anni fa e che si etichettava allora come il “dramma del Ruanda e della lotta delle sue etnie”. Per riavvolgere il nastro, basti pensare che quella strage ha scatenato una lotta di potere e di controllo delle risorse che l’Africa non conosceva dalla Conferenza di Berlino del 1984. Un sovvertimento degli equilibri tracciati con un righello dai Grandi di allora. Parigi, ad esempio, con l’Operazione Turquoise a guida francese, venne ingaggiata dall’Onu per cercare la pace, ma finì anche per offrire protezione e via di fuga ad assassini professionali. Agli istigatori dell’odio, a quelli che sprangavano le porte delle chiese dando fuoco all’edificio che riparava la gente dei villaggi sicura di trovarci un rifugio. Da allora il destino dei Grandi Laghi è cambiato. Il “francese” Mobutu è stato scalzato in Congo e il suo successore Kabila, dopo la protezione americana e delle multinazionali a caccia di risorse, ha lasciato nelle mani del figlio un Paese spaccato e che stenta ancora ora a riprendersi. E i protagonisti di quella Prima guerra mondiale africana (come la definì la segretaria di Stato Usa Madeleine Albright, inaugurando la stagione delle guerre per procura che oggi conosciamo tutti), sono tutti figli dell’eccidio ruandese: l’attuale Ruanda di Kagame, l’Uganda di Museveni.