È davvero nobile la formula dell’articolo 27, terzo comma, della nostra Carta fondamentale, che sostiene esplicitamente che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma è inspiegabile, però, che tale formula sia stata ritenuta compatibile con la presenza nel nostro sistema penale delle pene pecuniarie, che colpendo, in palese contrasto col principio costituzionale di eguaglianza, i meno abbienti duramente e molto lievemente i più abbienti, non hanno certamente né per gli uni né per gli altri alcuna efficacia rieducativa.
E ancora più imbarazzante è che il dettato costituzionale sia stato ritenuto compatibile con le pene detentive, le cui potenzialità rieducative nessuno è mai riuscito a dimostrare. Limitiamoci per ora a una riflessione sui recenti dibattiti in merito al 'fine pena mai' e sul cosiddetto 'ergastolo ostativo', che dimostrano quanto ormai siano palesemente offuscati nell’opinione pubblica (e non solo italiana) il concetto e la funzione della 'pena criminale'.
Fino a quando la categoria 'pena' non verrà cancellata dal sistema giuridico (cosa che peraltro molti auspicano), resterà fermo che per 'pena criminale' non si può intendere altro se non una 'sofferenza' inflitta a un reo, cioè a chi abbia violato alcune regole basilari dell’ordine sociale (quelle elencate minuziosamente nel codice penale). Finalità (giuridica, non morale) della pena è quella di offrire al reo una possibilità davvero straordinaria: quella di espiare (giuridicamente, non moralmente) la sua colpa, riguadagnando, per dir così, l’innocenza da lui perduta commettendo il reato e venendo conseguentemente reinserito, una volta scontata la pena, nella vita della comunità politica.
È irrilevante per l’espiazione giuridica che il reo si sia 'pentito' o che sia stato 'rieducato ': il solo fatto di avere scontato la pena inflittagli dal giudice in base alla gravità e alle circostanze del reato lo 'riabilita'. Il meccanismo penale è rigorosamente formalistico e le tante norme sull’esecuzione penale (che nel linguaggio giornalistico vengono riassunte nell’espressione 'benefici di legge ') non riescono a scalfirne il carattere. Si sostiene che l’ergastolo ostativo, togliendo ogni speranza ai condannati alle pene più gravi di poter usufruire di tali benefici, sia disumano e contrasti col diritto alla rieducazione che va riconosciuto a ogni detenuto.
Ma la riflessione può e deve farsi più radicale: di quale speranza, di quale rieducazione si parla, quando si fa riferimento a un reo? La speranza di un’amnistia, di vedersi accorciare la pena, di ottenere permessi 'premio' o di veder sostituita la carcerazione con la detenzione domiciliare è psicologicamente comprensibile, ma socialmente irrilevante, tanto quanto la speranza per chiunque abbia compiuto un reato di 'farla franca'.
L’unica, vera speranza che dovrebbe nutrire un reo è quella di potersi riabilitare , trasfor-mando l’espiazione giuridica, attivata dalla pena criminale, in una espiazione morale, attivata da un suo profondo e sincero pentimento: ma il primo contrassegno della sincerità di un pentimento non è quello di chiedere un addolcimento della pena o addirittura la sua stessa remissione, ma la manifesta intenzione di scontare integralmente la sanzione cui si è stati condannati, nella consapevolezza che essa va sempre comunque ritenuta inadeguata a sanare la colpa. Sfido chiunque a dimostrare che non solo un pluriomicida, ma chiunque abbia compiuto un delitto grave contro la persona, possa davvero sostenere ad alta voce di aver pagato, attraverso la pena criminale, anche solo in parte i suoi 'debiti' con la società e possa di conseguenza rivendicare sconti di pena, forme alternative di detenzione, permessi premio e gli altri numerosi 'benefici' previsti dalla legge.
La verità, molto malinconica, è che oggi la pena carceraria non è più né pensata né usata, almeno primariamente, a fini di giustizia, ma come una pratica di difesa sociale e soprattutto come una tecnica di intimidazione e di prevenzione dei reati. I magistrati in particolare, dovrebbero ribellarsi contro queste vere e proprie forme di strumentalizzazione della giustizia penale, che li inducono necessariamente ad agire non per quello che sono, ossia come giuristi, ma per quello che non sono, ossia come sociologi, psicologi, educatori. Essi dovrebbero soprattutto insistere in modo martellante sul rischio che si corre continuando a valutare come un segno di ravvedimento morale il (presunto) 'pentimento' di tanti detenuti, incredibilmente identificato con la collaborazione con le forze dell’ordine - collaborazione utilissima ai fini della lotta alla criminalità, ma moralmente caratterizzata da un palese cinismo. Un simile atteggiamento (da 'anime belle' come si sarebbe detto un tempo) soprattutto, insisto, da parte dei magistrati contribuisce rovinosamente al collasso della giustizia penale, che dovrebbe essere ormai sotto gli occhi di tutti.