Il via libera del Parlamento europeo al divieto di vendita di auto non a emissioni zero (di fatto quelle a diesel e benzina) a partire dal 2035 è stato salutato da ansie e preoccupazioni che si riveleranno nel tempo largamente infondate soprattutto sul fronte del peso sui possessori di autovetture. È del tutto improbabile che questa decisione possa comportare tra 13 anni un costo per i consumatori e un fardello aggiuntivo per i ceti più deboli rendendo la transizione ecologica non equa. L’aumento della produzione di auto elettriche (l’unica tecnologia oggi matura a emissioni zero) e le innovazioni (collegate e no all’aumento della produzione) determineranno una sensibile riduzione dei costi medi per le economie di scala che tenderanno a eliminare il differenziale di prezzo con le auto diesel o a benzina nel giro di qualche anno (i concessionari prevedono tra 2-4 anni), ovvero ben prima del 2035.
Ed è molto probabile che ben prima di quella fatidica scadenza la produzione di auto non elettriche crollerà sensibilmente perché alcune delle principali marche automobilistiche hanno annunciato il phase-out della produzione già prima del 2035 (Ford nel 2030, Audi nel 2033, Volkswagen per il 60% entro il 2030 e per il 100% entro il 2035). Già oggi sulla gamma bassa il differenziale nei casi migliori è attorno ai 4-5mila euro sul prezzo di acquisto e si riduce significativamente se consideriamo la spesa minore di carburante-ricarica nel tempo di possesso dell’auto. Negli Stati Uniti con gli incentivi dell’Inflation Reduction Act di Joe Biden già oggi il prezzo è pareggiato (si aspetta su questo la risposta europea con RepowerEu). Per citare solo un esempio dell’effetto possibile delle economie di scala, con l’aumento della produzione il prezzo dei pannelli solari si è ridotto di più del 99% dal 1979 a oggi rendendo il fotovoltaico una fonte di energia di gran lunga meno costosa di quelle fossili e del nucleare.
Un’altra preoccupazione in larga parte ingiustificata arriva sul fronte dell’adeguamento dell’infrastruttura osservando che ci sono in giro troppe poche colonnine di ricarica. Ragionare a bocce ferme da questo punto di vista è sbagliato perché l’infrastruttura deve adeguarsi per tempo alla diffusione progressiva dell’auto elettrica senza ritardare, ma nemmeno anticipare per evitare la presenza di troppi posti auto vuoti con colonnine di ricarica riservati alle auto elettriche.
Un’altra questione senz’altro centrale è quella delle conseguenze sul mercato del lavoro, soprattutto in Italia dove esiste un fiorente settore della componentistica del motore a scoppio (si pensi ad esempio al comparto manifatturiero nella zona di Torino, la Motor Valley a Modena ma non solo). Le previsioni su questo fronte sono che i posti perduti nel settore saranno più che compensati da nuovi posti di lavoro.
Ma qui un problema si pone. I nuovi posti di lavoro green saranno accessibili solo ai lavoratori che avranno maturato le competenze adeguate. Per questo la riqualificazione della forza lavoro e il diritto alla formazione continua dei lavoratori, in tutti i settori ma soprattutto in questo, saranno sempre più importanti. Altri miti da sfatare sull’auto elettrica riguardano il suo contributo effettivo alla transizione ecologica. Si sente spesso dire che se l’energia elettrica che utilizza la vettura è prodotta con fonti fossili non ne vale la pena e il risultato desiderato per la transizione non si realizza. In realtà già oggi il mix italiano è tale che le rinnovabili (incluso l’idroelettrico) coprono il 31% dei consumi elettrici e dunque l’auto elettrica sarà alimentata da energia che riflette quel mix che nel tempo tenderà a crescere (l’obiettivo di Repower Eu per il 2035 è stato recentemente alzato al 45% come media Ue di quota di energia coperta complessivamente dalle rinnovabili).
Si trascura un altro fatto fondamentale, quello dell’efficienza energetica. Nel motore elettrico quasi tutta l’energia utilizzata mette in movimento la macchina mentre col motore endotermico solo circa il 40% perché molta energia viene sprecata per altri usi (ad esempio raffreddamento del motore). Detto tutto ciò la fotografia comparata del momento attuale tra l’Italia e gli altri Paesi europei fa impressione. Prendendo a riferimento 13 tra i principali Stati europei (i Paesi scandinavi, il Nord Europa più Spagna e Italia) noi siamo fanalino di coda con una quota di mercato delle auto elettriche del 2,6% per le nuove immatricolazioni, la Spagna penultima è al 5,9 % mentre la Norvegia che guida la classifica è all’85 percento. Si tratta di differenze spiegate non solo dalla maggiore disponibilità a pagare negli altri Paesi ma anche da un sistema di incentivi più efficace. Alzando lo sguardo, guardando più in generale all’ampio panorama della transizione, non è affatto detto – come si va sussurrando e gridando – che essa favorirà solo la Cina, perché troviamo nel nostro Paese vere eccellenze di frontiera come, per esempio, STM leader nel settore dei microprocessori a maggior risparmio di energia, la nuova fabbrica che produrrà pannelli bifacciali a Catania, la leadership nella produzione di turbine eoliche in Puglia e la prospettiva di una grande azienda di batterie per auto della Stellantis a Termoli. Non si vince la sfida in una direzione ormai già tracciata rimanendo indietro. È compito della politica industriale cogliere la grande opportunità di questa transizione per far sì, esattamente come sta facendo il presidente Biden negli Usa, che essa intercetti imprese e lavoro europeo e italiano.