L’autonomia, quando la vogliono i più ricchi, si scrive sovranismo, si pronuncia egoismo. È quello che può succedere presto in Italia, non più nella forma plateale della Lega della prim’ora, quando raccoglieva voti nelle aree di riferimento al grido di "Roma ladrona", ma in forma molto più velata giocata in punta di norma. Alla fine il risultato potrà essere quello reclamato da tempo da parte delle Regioni più ricche: trattenere per sé gran parte della ricchezza prodotta senza doverla condividere con quelle più povere. In passato la rivendicazione aveva assunto toni addirittura rocamboleschi. Poi, lasciando i gesti epici alle teste calde, i raffinati della politica si sono concentrati sugli spazi offerti dalla legge e alla fine hanno trovato – un po’ per via plebiscitaria, un po’ con il trasversalismo politico – il modo per ottenere in forma strisciante ciò non erano riusciti a conquistare con lo scontro frontale. L’occasione è stata offerta, nel 2001, dalla modifica di alcuni articoli della Costituzione che fra le altre novità ha introdotto la possibilità per le Regioni che lo richiedano di godere di maggior autonomia su una serie di tematiche, alcune riservate allo Stato, altre di competenza condivisa.
Fra esse la pubblica istruzione, la sanità, la previdenza integrativa, ma anche la ripartizione degli introiti fiscali. Subito si registrarono diverse iniziative regionali per ottenere maggiore autonomia: la Toscana nel 2003 per i beni culturali, poi nel 200608 il Veneto, Lombardia, Piemonte, su varie materie. Ma nessuna di esse arrivò mai in porto, anche per l’atteggiamento ostile del IV governo Berlusconi (2008-11). Nel periodo più recente, tuttavia, la questione ha ripreso slancio. Nel 2017, tre regioni, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, hanno formalmente richiesto al governo di poter godere di maggiore autonomia e il 28 febbraio 2018, pochi giorni prima delle elezioni generali del 4 marzo, il governo Gentiloni ha concluso con ciascuna di esse una pre-intesa. I testi, molto simili fra loro, si concentrano su tre questioni chiave: la durata della maggiore autonomia, i temi oggetto di maggiore autonomia, le risorse di spettanza. La durata è di 10 anni, durante i quali sono possibili revoche solo se entrambi le parti sono d’accordo. Le tematiche sono quelle delle politiche del lavoro, dell’istruzione, della salute, della tutela dell’ambiente, dei rapporti internazionali e con l’Unione Europea. Quanto alle risorse, la pre-intesa stabilisce che andranno determinate da un’apposita Commissione paritetica Stato-Regione, inizialmente in base ai fabbisogni standard, poi anche in base «al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale».
E a riprova che il diavolo si annida nei dettagli, quella che potrebbe sembrare una disquisizione giuridica in realtà è una questione politica di grande rilevanza sociale, forse il vero obiettivo a cui puntano le tre Regioni richiedenti, fra le più ricche d’Italia. Il fabbisogno standard indica il livello di servizio da garantire e poiché dev’essere uguale per tutta Italia, è stabilito dal governo centrale. La misura è voluta dalla Costituzione per mettere tutti gli italiani sullo stesso piano di parità. Una volta stabilito il fabbisogno standard, uguale per tutta Italia, si stabilisce anche il suo costo procapite. Quindi si assegna a ogni Regione un ammontare pari al costo procapite moltiplicato per il numero di cittadini residenti. In altre parole, a determinare quale Regione riceve di più e quale di meno è solo la diversa quantità di popolazione. Ma se si dice che le risorse sono determinate anche in base alla quantità di gettito generato nella Regione, allora si inserisce un elemento di 'apartheid' fra i cittadini italiani perché, se questo schema sarà confermato, quelli che risiedono nelle aree più ricche disporranno di un ammontare procapite più alto di quelli che abitano nelle Regioni più povere. In concreto succederà che l’ammalato dell’Emilia Romagna godrà di migliori cure di quello della Basilicata, lo studente della Lombardia avrà migliore istruzione di quello della Campania, il camionista del Veneto viaggerà su migliori strade rispetto a quello della Calabria. Il che non farà altro che peggiorare il divario Nord-Sud già molto marcato. Secondo il rapporto Svimez 2018 «l’ammontare della spesa pubblica complessiva consolidata, intesa come spesa di Amministrazioni centrali e territoriali, si presenta significativamente più basso nel Mezzogiorno: 6.886 euro per abitante nel 2016 contro i 7.629 euro del Centro-Nord».
E gli effetti si vedono su tutti i piani: socioassistenziale, formativo, sanitario. I dati sulla mobilità ospedaliera interregionale sono forse la fotografia più chiara delle carenze del sistema ospedaliero meridionale. Svimez certifica che il saldo netto di ricoveri extraregionali dalle Regioni meridionali ha raggiunto le 114 mila unità nel 2016. Una mobilità che associata al ricorso alla sanità privata per aggirare le lunghe liste di attesa, costringe le famiglie meridionali a uno sforzo finanziario cospicuo. Non a caso nel Meridione la cosiddetta 'povertà sanitaria', l’impoverimento dovuto all’insorgere di patologie gravi, colpisce più che altrove. A livello nazionale, anno 2015, la percentuale di famiglie impoverite per sostenere le spese sanitarie non coperte dal Servizio sanitario nazionale, è stata pari all’1,4%. Ma nelle Regioni meridionali ha raggiunto il 3,8% in Campania, il 2,8% in Calabria, il 2,7% in Sicilia. Nel 'contratto di governo' stipulato fra Movimento 5 stelle e Lega si legge che è «questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte». Raccomandazione prontamente accolta da Erika Stefani, ministra agli Affari regionali che nell’autunno 2018 ha raggiunto intese definitive con le tre Regioni padane. Intese che stanno per ottenere l’approvazione definitiva del governo e sono in procinto di essere sottoposte all’approvazione del Parlamento, il quale però non ha possibilità di emendarle né di entrare nel merito dei contenuti. Può solo approvarle o respingerle. E se verranno approvate, tutto il potere di definizione degli specifici contenuti normativi e finanziari verrà demandato a Commissioni paritetiche Stato-Regione, sottratte a qualsiasi controllo parlamentare. Così si afferma quella che il professor Viesti ha definito la «secessione dei ricchi», che si sa dove comincia, ma non dove finisce.