E così, «contro la partecipazione italiana ai bombardamenti della Nato», la Lega di Bossi potrebbe persino far cadere il governo Berlusconi: un’impresa degna della vecchia Rifondazione comunista, che fece venire meno il suo voto ai governi di centrosinistra quasi sistematicamente quando erano all’ordine del giorno questioni relative alla sicurezza nazionale, che fosse la ratifica dell’allargamento della Nato, o la "Missione Alba", l’intervento in Kosovo o quello in Afghanistan. Bossi come Bertinotti dunque? E, soprattutto, il pacifismo come elemento costitutivo del Dna leghista? Forse, prima di giungere a una simile, sorprendente, conclusione converrebbe osservare qualche cautela. E sì, perché se già in occasione della guerra del Kosovo la Lega si esprimeva a favore dei «diritti del popolo serbo», e ancora pochi giorni orsono alcuni suoi autorevoli esponenti chiedevano il ritiro delle truppe italiane dal Libano, una tale apparente idiosincrasia nei confronti della forza armata convive con uno stile comunicativo decisamente incline a mostrare i muscoli: dal 'celodurismo' ai «fucili che i padani esasperati potrebbero imbracciare» ai barconi di migranti da «prendere a schioppettate». Siamo molto lontani sia dall’irenismo cattolico sia da quello, invero piuttosto a senso unico, della sinistra radicale. In particolar modo, mi preme sottolineare un aspetto.Tanto il pacifismo integrale di certi movimenti cattolici, quanto quello più politicamente orientato della sinistra radicale, riflettono l’ideale o l’utopia che 'un altro mondo sia possibile', in cui i rapporti di forza siano meno centrali. Si tratta cioè di un pacifismo 'aperto' al mondo, e questo va obiettivamente riconosciuto, anche quando non si condividano l’accuratezza delle analisi su cui si fondano o l’appropriatezza delle soluzioni che propongono. Nel caso della Lega, e peraltro assai significativamente anche nel caso dell’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, si direbbe piuttosto che le scelte contrarie alla partecipazione a missioni militari siano piuttosto figlie di uno scarso interesse per la dimensione internazionale della politica. Si tratta cioè di una conseguenza quasi logica della programmatica volontà di isolarsi dal resto del mondo, dell’illusione che sia possibile chiudere la porta in faccia al mondo. Non è un caso che spesso siano associate alla preferenza per politiche protezionistiche e talvolta per posizioni euroscettiche. È significativo il tipo di ragioni esibite da Bossi per opporsi alla partecipazione italiana ai bombardamenti sulla Libia: il costo economico e la paura che ciò possa accrescere il flusso di migranti; e quello dei costi e della necessità di occuparsi innanzitutto dei «problemi di casa nostra» è un tema retorico impiegato regolarmente anche dall’Idv.Che la politica estera non rappresenti la principale preoccupazione di partiti come la Lega o l’Idv, del resto, lo si ricava dalla difficoltà di determinare il loro effettivo posizionamento sulle principali questioni di politica internazionale, sempre che non ci si voglia arrestare ad affermazioni talvolta generiche talvolta bizzarre.Un fatto non così sorprendente, se solo si considera che entrambe queste formazioni, oltre a condividere una spiccata vocazione populista e una leadership carismatica, non hanno bisogno di assumere una chiara "postura internazionale" per continuare ad aumentare il proprio bacino di sostenitori. Anzi, ogni volta che l’agenda politica è "eccessivamente" dominata dalle questioni internazionali, la loro fragilità o assenza di elaborazione emerge e li condanna a una pericolosa passività. A meno di non assumere iniziative platealmente dirompenti: il cui vero scopo, in realtà, è quello di far tornare al centro del dibattito l’agenda domestica. Anche in questo, è possibile osservare una consistente differenza rispetto alle modalità di comportamento del pacifismo cattolico o di sinistra, che proprio nell’agenda internazionale ha sempre trovato la quinta perfetta sul quale stagliare la propria identità.