I figli nati da fecondazione assistita in Italia sono quasi raddoppiati. Secondo la relazione presentata al Parlamento e dedicata all’attuazione della legge 40, l’incremento di nascite in tre anni è netto: nel 2007 sono 'transitati' per le provette oltre novemila bambini, contro i meno di cinquemila del 2005, primo anno in cui tutti i centri italiani erano stati monitorizzati. Il primo elemento dunque nel bilancio della legge passata attraverso l’aspro scontro del referendum, è che non c’è stato il crollo di nascite e la generalizzata fuga all’estero delle coppie che non riescono a concepire. Oltre frontiera 'deve' andare chi vuole una diagnosi prenatale dell’embrione, e dunque una selezione fra i figli concepiti, oppure chi ne chiede il congelamento, vietato dalla legge italiana. Al di fuori di queste possibilità, peraltro eticamente critiche e non solo per i cattolici, i numeri della Relazione dicono sostanzialmente che la legge funziona; e sembrano anche svuotare dunque, nel merito, il ricorso avanzato alla Corte Costituzionale dai suoi avversari. Due, sostanzialmente, i punti critici dell’attuazione: il primo segnala una percentuale più alta di quella europea di parti trigemellari. Per i detrattori della legge questa è la conseguenza dell’obbligo di impianto dei tre embrioni prodotti in provetta. Dal Ministero si replica che tale è il divario di gravidanze trigemellari tra un centro e l’altro – dallo 0 addirittura al 13 per cento del totale – che è evidente come non la legge, ma la pratica operativa dei centri determini questo risultato. In altre parole, nei centri migliori si seleziona l’ovocita e si ottengono e impiantano solo uno o due embrioni invece che tre, come usano fare invece i medici meno qualificati, per aumentare le chance di successo. Di qui l’intenzione, importante, di arrivare a una classificazione di qualità dei centri, perché le donne sappiano con esattezza in quali mani si mettono, nella disparità fra strutture private e pubbliche, fra Nord e Sud. È anche questo un ordine necessario, nella ampiezza di un 'mercato' complesso e agguerrito, che almeno la legge ha il merito di avere regolamentato. L’altra criticità italiana è l’età molto elevata in cui le donne si rivolgono alla fecondazione assistita, 36 anni di media, con un quarto di richieste oltre i 40 anni, quando le possibilità di avere un figlio si abbassano drasticamente. Età elevata che però sembra un portato del ritardo sui tempi biologici con cui in Italia si arriva a cercare un figlio: lo si desidera a trent’anni, e a trentasei se non arriva si ricorre alle provette. Molte gravidanze in più sarebbero fisiologiche se si riuscisse ad agire su quei fattori sociali ed economici che portano la maternità in fondo, temporalmente, agli obiettivi che una donna deve realizzare. Almeno in questa accezione avrebbe significato quel 'diritto al figlio' tanto declamato quattro anni orsono. Dal referendum che ha diviso l’Italia, e che ha visto i cattolici costretti a difendere una legge pure idealmente non condivisa per evitare che tutto nel campo della fecondazione artificiale fosse possibile, i numeri dicono che le italiane hanno accesso alla fecondazione assistita, senza bisogno di emigrare. Che, anzi, il divieto di congelamento degli embrioni ha incentivato le tecniche alternative di crioconservazione degli ovociti, in cui l’Italia è all’avanguardia. La diagnosi prenatale sugli embrioni, la selezione di quelli sani, il congelamento, nel nostro Paese restano inaccessibili: la legge ha doverosamente limitato i 'diritti' dei genitori con quelli dei figli in fieri – che non sono cose. E questa mediazione, e i numeri, dicono oggi che la avversatissima legge 40, la «legge crudele», la «legge bigotta», fuori dall’ideologia e nella realtà naviga, e funziona.