Fondata da un fratricida, incendiata da un imperatore con velleità artistiche, saccheggiata dai lanzichenecchi, occupata dai francesi, oltraggiata dai nazisti, stravolta dai palazzinari, insanguinata da una banda senza scrupoli, venduta e comprata da politicanti di tutti i colori. Tra affascinanti leggende, vera storia e nera cronaca, Roma ne ha passate davvero tante. Si può dire che i romani, e i loro avi, hanno visto di tutto. Eppure il risveglio di ieri mattina è stato duro pure per una città così navigata: il presidente dell’Assemblea capitolina arrestato per corruzione.
Uno dei principali nomi del Movimento 5 Stelle, al quale tanta fiducia gli elettori romani hanno dato alle ultime Comunali, eleggendo Virginia Raggi sindaco al ballottaggio, contro il dem Roberto Giachetti, con oltre il 67% dei voti. Marcello De Vito, onesto autoproclamato (come tutti i suoi compagni di partito) e presunto innocente fino al giudizio definitivo come stabilisce la Costituzione, è finito in carcere sulla base di un impianto accusatorio che ricorda tanto, troppo, da vicino i maneggi di quella che i seguaci di Grillo hanno da sempre definito, e ancora definiscono, «la vecchia politica».
L’ultimo esempio lo si era avuto giusto martedì sera, con i pentastellati a chiedere le dimissioni del presidente del Lazio e segretario del Pd Nicola Zingaretti in quanto indagato per un presunto episodio di finanziamento illecito. Come la sorte, anche il giustizialismo può rivelarsi beffardo.
Ma non è di De Vito, né dell’inchiesta, che qui interessa parlare: la giustizia farà il suo corso e alla fine si tireranno le somme. Quello che invece si può raccontare, e va raccontato, è lo stordimento di una città, la più grande delle città italiane, che nell’arco di una mattinata è passata dal lungo inverno del suo scontento, che sembra non dover finire mai, all’alba del suo sconcerto. Perché stavolta non basta il proverbiale disincanto capitolino per assorbire il colpo.
«È una botta pazzesca», ammettevano ieri numerosi parlamentari pentastellati. Pensavano ovviamente al Movimento e ai prossimi appuntamenti elettorali, a cominciare dalle Europee di fine maggio. Ma è lo stesso pensiero che ha avuto gran parte dei romani, riflettendo invece sul destino della loro città. L’angoscia, in qualunque modo si voti o si sia votato, sale. È possibile che vada sempre a finire così, con le accuse che volano e le manette che scattano?
Non c’è speranza, per Roma? Forse se lo sta chiedendo anche la signora che in occasione delle elezioni politiche del 4 marzo dell’anno scorso, appena fuori il seggio di un quartiere "borghese" della Capitale, confidava soddisfatta a un’amica e senza volerlo anche a chi scrive: «Guarda quante persone... Me lo sento, finalmente cambierà qualcosa, la gente è stufa... Non ci facevano votare da tanti anni!». Evidentemente quest’ultima fallace rivendicazione funziona nel circuito della propaganda a buon mercato, di recente è stata perfino pronunciata in diretta tv da un volto noto dello spettacolo.
Sconcerto, dunque. Come quello di un caro parente che alle obiezioni politiche del fratello sull’amministrazione cittadina, replicava sinceramente: «Confido almeno nella loro onestà». Così siamo messi, a Roma. Talmente scottati e disillusi da non credere più che un amministratore possa essere allo stesso tempo competente e irreprensibile. Perché il romano, se ti crede, lo fa fino in fondo. Ma se perde la fiducia, allora è dura riconquistarlo. Di sicuro non si consola a sentire il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che dopo l’espulsione immediata di De Vito si compiace perché «il Movimento 5 stelle dimostra di avere gli anticorpi efficaci per reagire a episodi del genere». Anzi, c’è la possibilità che il commento più prevedibile a una simile affermazione sia un’espressione romanesca piuttosto nota ma qui non riportabile. Un’intera città, la capitale di questo Paese, le ha provate tutte e non ne può più di sentirsi tradita: ecco l’aspetto sul quale tutti i partiti e tutti i leader politici farebbero bene a cominciare, seriamente, a riflettere.