In un dettagliato studio dell’Energy Policy Institute dell’Università di Chicago, citato di recente dall’agenzia Bloomberg, si evidenzia come la Cina, negli ultimi sette anni, abbia ridotto l’inquinamento atmosferico quasi quanto abbiano fatto gli Stati Uniti negli ultimi trenta: il cosiddetto 'particolato nocivo' (Ppm) tra il 2013 ed il 2020 in Cina è calato del 40%, mentre negli Usa, negli ultimi tre decenni, del 44%. Una bella notizia, soprattutto perché riguarda quello che è ancora tra i Paesi che più inquinano il pianeta. Significa due cose, entrambi incoraggianti. Che anche i 'cattivi' possono ravvedersi, e che rallentare/fermare/invertire la tendenza a distruggere il nostro ambiente è possibile. E qualcuno, più di altri, lo sta facendo. Se la Cina dovesse proseguire a questo ritmo, garantirebbe due anni in più all’aspettativa di vita di tutti gli abitanti della Terra.
È dal 2013, dai tempi del drammatico allarme 'Airpocalypse now', quando i cinesi – ed il mondo intero, di cui fanno parte integrante e sempre più determinante – guardavano con orrore le immagini dei loro cieli oscurati dallo smog, l’aria pesante, le previsioni sempre più catastrofiche fatte dallo stesso governo. C’è un bellissimo documentario, girato nel 2015 da una coraggiosa giornalista della Cctv, la Tv di Stato cinese, Chai Ching, che mostra il livello di inquinamento di quegli anni, ma anche gli sforzi profusi per ridurlo, che all’epoca erano solo programmati e oggi in parte realizzati. Si intitola 'Under the Dome': dopo essere stato ripetutamente promosso ed acclamato dalle autorità – oltre 300 milioni di visualizzazioni prima on demand poi su weibo, la 'rete' cinese – è stato censurato e ufficialmente rimosso.
Che la Cina continui a essere tra le potenze più inquinanti del pianeta è un fatto. E anche se negli ultimi anni sono risultati essere altri i Paesi più 'cattivi' – India, Cambogia, Tailandia, Congo, Pakistan, Bangladesh –, dove le micidiali PM 2.5 sono aumentate degli ultimi due anni del 13%, raggiungendo livelli 15 volte superiori alle linee guida dell’Oms, l’impatto ambientale cinese rappresenta ancora una minaccia. Per il suo popolo, buona parte del quale vive ancora in zone super-inquinate, e per il resto del pianeta, visto che il miraggio della cosiddetta 'decarbonizzazione' – annunciata per il 2060 – ha portato, per ora, a scelte difficili, economicamente onerose e non si sa quanto efficaci.
Ma bisogna dare atto al governo cinese di aver programmato e agito, ottenendo già notevoli risultati. Ci sono intere regioni, prima fra tutte il Guangdong, la più ricca del Paese, che comprende Guanzhou e Shenzen e che ha oramai superato Italia e Canada quanto a Pil, dove il trasporto pubblico è interamente elettrico e quello privato ha scadenze precise per adeguarsi. L’impiego del carbone nelle grandi città è stato vietato, e pur prevedendone ancora l’uso per la produzione industriale (accanto al progetto di altre 6 centrali nucleari, oltre alle 19 già in costruzione) per il suo trasporto sono in programma carbonodotti sotterranei, che eliminano la fase più inquinante: quella del trasferimento in superficie.
Incisivo anche l’intervento contro i cosiddetti 'criptominers', gli estrattori di bitcoin che succhiano enormi quantità di energia. Già dalla scorsa estate Pechino ha posto rigorosi limiti a questa attività, costringendo gli operatori a spostarsi in Paesi limitrofi come il Kazakistan e la Russia, dove l’energia elettrica costa molto meno. Questo non ha ovviamente ridotto l’impatto sul 'raccolto' mondiale degli 'scavatori' cinesi, che resta attorno al 70%, ma ha ridotto i consumi e il rischio di blackout in alcune zone del Paese. Ma è sulle rinnovabili che il governo cinese sta concentrando i suoi sforzi: sia a livello di produzione (la Cina già produce oltre l’80% dei pannelli solari e il 50% delle turbine eoliche) sia di distribuzione/ utilizzazione. Il target di raggiungere il 25% del mix energetico – nel 2020 era del 14% – passa attraverso rigorosi controlli, multe e altro tipo di sanzioni (fino all’arresto dei dirigenti) per le aziende che non si adeguano.
Per non parlare di altri, ambiziosi progetti per combattere siccità e inaridimento: come Grain for Green, un programma che paga i contadini per piantare alberi sui loro terreni. L’obiettivo è quello di mettere a dimora, entro il 2050, 100 miliardi di alberi lungo i 2.800 chilometri che circondano il deserto del Gobi, per evitare che si allarghi: una grande muraglia verde.