Loris, caro fratello, hai voluto farci partecipi della tua vita e noi te ne siamo veramente grati. Siamo tutti poveri «pellegrini dell’Assoluto», abbiamo continuamente bisogno di imparare a vivere meglio e lavorare per rendere migliore il mondo che lasceremo in eredità ai nostri figli. Dopo la lunga lettera che hai voluto indirizzarci, risponderti è un dovere. Per quanto ci scervelliamo non sapremo mai perché una persona arriva a vivere cento anni in buona salute e un’altra invece è costretta a fare a pugni con la morte ogni giorno per strapparle dalle grinfie un pizzico di gioia. Basta, poi, assistere a un dibattito politico, filosofico, religioso per accorgersi che le posizioni sono tante e tanti anche gli imbrogli che, purtroppo, vengono perpetuati sulla pelle della gente da altra gente senza scrupoli. A pagare il prezzo più alto, come sempre, sono i più poveri, i malati, gli anziani, i bambini, i piccoli non ancora nati. Coloro, cioè, che hanno meno voce o non l’hanno affatto. Hai sofferto troppo, Loris. Troppo.
Leggendo la tua storia, non abbiamo potuto fare a meno di abbassare lo sguardo e chiederti perdono. I credenti sanno che agli occhi di Dio niente va perduto. In modo misterioso ma vero la sofferenza, come seme nascosto, germoglierà e darà vita ad altra vita. Non chiedermi come accada, non te lo saprei spiegare. Per questo motivo, soprattutto quando si tratta della vita, la nostra, quella dei nostri contemporanei o dei fratelli che abiteranno la terra dopo di noi le nostre posizioni sono estremamente serie, pacate, rispettose, ponderate. Per noi la vita unica e irripetibile è un bene da salvaguardare. Sempre, anche quando si fa pesante. Anche quando vorremmo gridare al mondo l’ingiustizia di cui siamo rimasti prigionieri. Lo so, è facile parlare quando il corpo e la mente obbediscono ai tuoi comandi.
Quando sei amato, cercato, coccolato. Per questo motivo parliamo sottovoce. Un sussurro appena, nel rispetto di chi, come te, non ce la fa più a tirare avanti. Non avevi ancora 20 anni, in quel giugno del 1977 quando sei rimasto vittima di un incidente stradale. Da allora la sofferenza è diventata tua inseparabile compagna. Sei stato forte, hai lottato, ti sei impegnato nel sociale e in politica. C’è ancora tanto da fare per far capire a chi cammina sulle sue gambe che i parcheggi per i fratelli disabili debbono essere lasciati liberi; che le barriere architettoniche vanno abbattute perché tutti hanno diritto di entrare in chiesa, a scuola, in macelleria, in banca... Abbiamo ancora tanto da imparare, Loris. Abbiamo bisogno di maestri come te per non cedere a pigrizia, negligenza, egoismo, menefreghismo. Non te ne andare. «Resta qui con noi» cantiamo nelle nostre parrocchie rivolti al Signore Gesù. Mi piace oggi rivolgerle a te queste parole. Resta qui con noi, Loris. Nella tua lettera c’è qualcosa che deve essere approfondito. Alle sofferenze fisiche che andavano crescendo di giorno in giorno si è aggiunto il dolore immenso della separazione da tua moglie. Non ce l’ha fatta. È andata via.
Tu hai compreso. Scrivi: «Mia sorella ha una grave sclerosi multipla… mia madre ha appena compiuto 80 anni e quindi non posso in questo momento contare sul loro aiuto…». Hai ragione. La perdita quasi totale della vista è venuta a peggiorare le tue già gravissime condizioni di salute. L’aiuto che ti veniva in passato dalla regione Veneto non bastava più. Occorreva un passo in avanti. La nostra società può dirsi veramente civile solo quando assume su di sé il dolore e i disagi di chi non è più in grado di badare a se stesso, senza farglielo pesare. Purtroppo non è avvenuto. Nemmeno l’aiuto dei tuoi amici ha potuto far fronte alle nuove esigenze. Scrivi: «Questo mio progressivo peggioramento fisico mi rende difficile immaginare il resto della mia vita in modo minimamente soddisfacente, essendo la sofferenza fisica e il dolore diventati per me insostenibili e la non autosufficienza diventata per me insopportabile. Sono arrivato quindi a immaginare questa scelta, cioè la richiesta di accompagnamento alla morte volontaria, che è frutto di una lunghissima riflessione…». Un pugno in pieno viso, un calcio nello stomaco.
No, Loris, non puoi andare via così. La tua battaglia deve continuare. I tuoi fratelli nella sofferenza hanno bisogno di te. Il tuo j’accuse ci fa male. Tu hai diritto di essere aiutato a vivere non di essere accompagnato a morire. «Il muro contro il quale ho continuato per anni a battermi è più alto che mai e continua a negarmi il diritto a una assistenza adeguata». Con queste parole hai messo il dito nella piaga. È quel muro che deve scomparire per sempre dalla faccia della terra. È quel muro che deve essere abbattuto, anche nelle nostre teste. Con la partecipazione di tutte le persone di buona volontà. E tu, Loris, che hai sferrato la prima picconata, resta con noi, nella nostra memoria, accanto alle sorelle e ai fratelli che soffrono. Per il bene di tutti.